UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DELLE ARTISTE ATTIVE A ROMA TRA IL XVI E IL XVIII SECOLO
di Luigi Capano
Lavinia Fontana a Madonna dei Monti, Plautilla Bricci a San Francesco a Ripa, Artemisia Gentileschi in Via della Croce, e poi Maria Felice Tibaldi a San Carlo ai Catinari, e ancora Emma Gaggiotti in Via Gregoriana, Angelika Kauffmann a Trinità dei Monti.
E’, questo, soltanto un breve ma esemplare segmento del lungo, ideale itinerario diacronico attraverso le botteghe, gli studi, le residenze di cinquantasei artiste attive a Roma tra il Cinquecento e il Settecento, alluso e compendiato dalla mostra” ROMA PITTRICE, Artiste al lavoro tra XVI e XVIII secolo” ospitata a Palazzo Braschi fino al 23 marzo 2025. Con oltre centotrenta opere, nell’intento delle curatrici Ilaria Miarelli Mariani e Raffaella Morselli (con la collaborazione di Ilaria Arcangeli), si è voluta così compiere una prima circoscritta ricognizione nell’universo artistico femminile, storicamente piuttosto negletto, collazionando alcuni nomi celebri, assieme ad altri meno noti, e ad altri ancora precipitati, come spesso accade per i motivi più vari, nei recessi obliosi della memoria. Vi troviamo rappresentati, dalle protagoniste, tutti i soggetti in voga in quei secoli così proficui per le arti e per il pensiero: dal ritratto al tema mitologico e religioso, dal paesaggio alla natura morta; e tutte le tecniche nelle quali esse erano use cimentarsi: dall’incisione alla miniatura, dall’olio alla tempera, all’acquerello, alla scultura. Possiamo dire che, almeno negli esiti che ci vien dato di ammirare, le cosiddette differenze di genere recedono drasticamente: la qualità e la creatività giocano sempre all’altalena, nelle donne come negli uomini. E che il pregio di questa mostra, accurata e coinvolgente nell’allestimento, ci sembra di coglierlo, precipuamente, in un certo sentimento di arricchimento percettivo, per così dire, che si palesa soprattutto quando, al termine della visita, già distante dalle sale e dai quadri, la memoria accarezza ancora, con trasognata nostalgia, i morbidi chiaroscuri degli incarnati, la trama ineguale dei tessuti, la motilità cromatica di certi paesaggi, il gioco delle linee e di volumi che anima d’una vita misteriosa una scena di genere. E riandiamo quindi a uno dei quadri che più ci ha attratti, l’Aurora (1626 ca.) di Artemisia Gentileschi, una pittrice formatasi nella bottega del padre Orazio, entrambi avvinti dalla rivoluzione caravaggesca: la dea romana che sorveglia il confine lunisolare è ritratta in posa da diva sul proscenio di un dramma cosmologico mentre con gesto teatrale pone fine alle tenebre notturne cedendo la scena alla luce incipiente, giocosamente diffusa da un puttino tedoforo. La verzura, i nembi, le vesti della dea segnalano una folata improvvisa, emblema panico dell’ora cruciale. Un affine dinamismo sorprendiamo, ma in una forma più addomesticata e raccolta per dir così, nella Cena in casa del fariseo (1748) di Maria Felice Tibaldi, accademica di San Luca e Arcade. Si tratta di una copia di piccole dimensioni di un dipinto del marito -il pittore francese Pierre Subleyras- esposto al Louvre. Dinanzi al proscenio affollato di protagonisti e di figuranti l’occhio sosta irresoluto nell’impossibilità di cogliere la visione scenica d’insieme, e le molteplici direzioni del moto rendono la narrazione evangelica come animata da un’intima tribolazione. Troviamo un sensuale controcanto a codesta diffusa, elementare inquietudine, nella Venere di Emma Gaggiotti (1867), morbidamente distesa su un triclinio di velluto rosso la quale, nella sua disinvolta nudità romano-rinascimentale, acconciata in una posa classica, offre al riguardante un volto lezioso di consumata cocotte, insinuandogli una promessa d’alcova.