di Lucio Martino
Anche quest’anno, a decidere l’identità del prossimo inquilino della Casa Bianca saranno cinquanta distinte elezioni. Per vincere la presidenza, non basta vincere una maggioranza dei voti, occorre che tali voti siano distribuiti all’interno del territorio nazionale, in modo da vincere anche una maggioranza di stati. Non per niente, quattro anni fa, Donald Trump prese oltre due milioni di voti in meno ma vinse in trenta stati, mentre Hillary Clinton pur prendendo oltre due milioni di voti in più, vinse solo in venti stati.
Questo meccanismo elettorale complica di molto il lavoro dei sondaggisti d’opinione. Sempre quattro anni fa, quest’ultimi centrarono con una buona approssimazione le percentuali di voto che a livello nazionale sarebbero andate all’uno e all’altro candidato, ma fallirono miseramente le percentuali relative a quel gruppo di stati tradizionalmente in grado di votare tanto democratico quanto repubblicano. Negli ultimi trent’anni, sono venti gli stati votano stabilmente democratico e sono altri venti quelli che votano altrettanto stabilmente repubblicano, di fatto annullandosi reciprocamente. L’attenzione degli osservatori, e gli sforzi dei candidati, si concentrano così su stati teoricamente aperti a qualsiasi risultato quali Florida, Iowa, Michigan, North Carolina, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin.
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di Salvatore Stanizzi
Ogni quattro anni i cittadini americani sono chiamati ad eleggere il Presidente. Il sistema elettorale statunitense è un sistema di elezione indiretto, nonché uno dei più complicati fra quelli attualmente esistenti.
Le modalità di elezione sono fissate dalla sezione I dell’articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Il Presidente e il Vicepresidente vengono votati sulle schede elettorali dalla popolazione ma sono formalmente votati dai Grandi Elettori che sono a loro volta eletti dai cittadini di ogni singolo Stato. Per semplificare: il giorno delle elezioni i cittadini votano per uno dei candidati ma eleggono i Grandi Elettori che sono associati ai 50 Stati e al District of Columbia.
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di Pietro Fiocchi
La Cina e il mondo o anche la Cina è il mondo: secondo i punti di vista. Certo è che oggi per ogni grande impresa, dalla cooperazione economica alla sicurezza internazionale e alle sfide come quella in cui ci troviamo in mezzo, è poco saggio non confrontarsi, non fare ogni sforzo per soluzioni condivise o non considerare serenamente e razionalmente progetti comuni con questo immenso paese, per popolazione, cultura e tradizioni, proposte innovative, che è la Cina.
A meno che davvero non ci si voglia limitare, più o meno autonomamente, nella crescita del sistema paese, l’Italia, che in un passato non lontano e con ben altri protagonisti della tribuna politica, ha avuto un ruolo internazionale di molto superiore a quello a cui è oggi relegata.
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di Federiga Bindi
A circa un mese dal voto, con il primo dibattito presidenziale, la campagna elettorale è entrata nella fase cruciale. Il temine dibattito presidenziale non è tuttavia appropriato per lo spettacolo impietoso e disgustoso a cui gli americani si sono trovati ad assistere.
A livello formale, gli americani, come in genere gli anglosassoni, tendono ad essere eccessivamente gentili ed educati. Please, thank you e kindly sono diffusi in quantità ed i toni soft sono la norma. Nessuno era quindi preparato al livello verbale di aggressività e volgarità a cui abbiamo assistito. Donald Trump ripetutamente ha interrotto Joe Biden mentre parlava, nonostante i continui richiami del moderatore, finchè lo stesso Vice Presidente è sbottato: “Will you shut up, man?”
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di Giuseppe Morabito
Venerdì a Parigi due persone sono rimaste gravemente ferite in un attacco a colpi d’ascia nei pressi dell'ex ufficio di Charlie Hebdo.
In Francia le forze di sicurezza stanno indagando partendo dalla ormai palese ipotesi di attacco terroristico che avviene a poco più di cinque anni da quello in cui uomini armati hanno aperto il fuoco nella redazione della, pur discutibile per contenuti, rivista satirica francese.