di Salvatore Stanizzi
Ogni quattro anni i cittadini americani sono chiamati ad eleggere il Presidente. Il sistema elettorale statunitense è un sistema di elezione indiretto, nonché uno dei più complicati fra quelli attualmente esistenti.
Le modalità di elezione sono fissate dalla sezione I dell’articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Il Presidente e il Vicepresidente vengono votati sulle schede elettorali dalla popolazione ma sono formalmente votati dai Grandi Elettori che sono a loro volta eletti dai cittadini di ogni singolo Stato. Per semplificare: il giorno delle elezioni i cittadini votano per uno dei candidati ma eleggono i Grandi Elettori che sono associati ai 50 Stati e al District of Columbia.
Il famoso principio del winner takes all (chi prende un voto in più vince) infatti è valido – in 48 stati e nel District of Columbia – a livello statale, non federale. A fare eccezione sono gli Stati del Maine e del Nebraska, i quali eleggono i Grandi Elettori con metodo proporzionale. I Grandi Elettori di questi due stati infatti vengono assegnati solo in parte al candidato più votato: è quindi possibile affermare che esistano più competizioni elettorali all’interno del Maine e del Nebraska. La differenziazione che può scaturirne è definita split electoral votes. In Nebraska ad esempio, 2 dei 5 Grandi Elettori vengono assegnati al vincitore del voto popolare dello Stato, mentre gli altri 3 vengono assegnati ciascuno al candidato vincente in ognuno dei 3 distretti elettorali in cui è diviso il Nebraska per la Camera dei Rappresentanti. Discorso pressoché identico per il Maine: 2 dei 4 Grandi Elettori vengono assegnati al vincitore del voto popolare mentre i 2 rimanenti vengono assegnati al vincitore dei 2 congressional districts dello Stato, sempre per la Camera.
I singoli Stati federali hanno diritto ad un minimo di 2 Grandi Elettori ma è il censimento a stabilire il numero definitivo. California e Texas ad esempio sono i due Stati più popolosi e hanno dunque diritto ad un numero maggiore di Grandi Elettori: 55 per il The Golden State e 38 per il The Lone Star State. Il numero minore di Grandi Elettori presente in uno Stato attualmente è di 3 EV.
Il numero complessivo di Grandi Elettori ammonta a 538, che è altresì la somma algebrica fra membri della Camera (435), membri del Senato (100) e Grandi Elettori del District of Columbia (3).
L’Election Day, come anticipato in apertura, cade ogni quattro anni e sempre in una data diversa. È dal 1845 infatti che le elezioni cadono il «martedì successivo al primo lunedì di novembre» per evitare che il giorno delle elezioni cada il 1° novembre, che è un giorno festivo. Nel corso degli anni questa scelta ha però suscitato malumori per via del giorno feriale e non festivo in cui ricade il giorno delle elezioni. Per ovviare a questo problema e alla possibilità di una scarsa affluenza, da anni oramai è possibile votare via posta o anticipatamente di persona. La modalità via posta è stata altamente utilizzata durante la tornata elettorale del 2020, andando a superare il 50% dell’affluenza del 2016.
A conclusione di Election Day ed Election Night il candidato che supererà la fantomatica soglia dei 270 Grandi Elettori diverrà il Presidente Eletto in attesa della riunione del Collegio Elettorale composto per l’appunto dai Grandi Elettori che formalizzerà – attraverso votazione – l’elezione. Qualora nessuno dei due candidati dovesse superare tale soglia si presenterà il cosiddetto Scenario 1824, nome dovuto alla tornata elettorale di quell’anno che comportò l’applicazione della procedura prevista in caso di mancato raggiungimento della soglia elettorale richiesta da parte di uno dei due candidati. In tale caso è la Camera dei Rappresentati a votare per Stato e non per testa – 1 singolo voto per ogni stato, 50 voti da esprimere e non 435 – per eleggere il Presidente e il Senato a votare per testa – 100 voti – e non per Stato per eleggere il Vicepresidente.
Dalla fine del giorno delle elezioni fino al giorno della riunione dei Grandi Elettori la transizione viene guidata da un apposito team con a capo il candidato Vicepresidente (prassi consolidatasi solo a partire dalle elezioni presidenziali del 2000, quando Dick Cheney fu il primo candidato alla Vicepresidenza a guidare un team di transizione).
Il «lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre» i Grandi Elettori si riuniscono nel citato Collegio Elettorale degli Stati Uniti d’America. È possibile – cosa avvenuta nel 2016 ad esempio – che i Grandi Elettori possano cambiare idea e votare per un candidato diverso rispetto a quello che ha vinto nello Stato in cui sono stati eletti. Non è mai accaduto, però, che tale situazione potesse produrre uno stallo tale da non eleggere il Presidente. Qualora un Grande Elettore decida di cambiare il voto, a seconda della legge dello Stato in cui è stato eletto, può incorrere in talune sanzioni. La votazione da parte dei Grandi Elettori avviene a scrutinio segreto ed entro 9 giorni dalla stessa i voti vengono inviati al Senato per il conteggio che quest’anno si terrà il 6 gennaio 2021. Al raggiungimento della fatidica soglia dei 270 Grandi Elettori, il Presidente sarà dunque ufficialmente eletto e entrerà in carica nel giorno del giuramento (c.d. Inauguration Day), che cade il 20 gennaio 2021, come previsto dal XX Emendamento.
La struttura elettorale americana è elaborata e comporta costantemente forti polemiche.
Nella storia per ben 5 volte cinque Presidenti hanno vinto il Collegio Elettorale ma perso il voto popolare: Adams (1828), Hayes (1876), Harrison (1888), Bush jr. (2000) Trump (2016).
Le origini di questo sistema elettorale sono insite nella storia stessa della neonata democrazia americana a cavallo fra la fine del 1700 e l’inizio del 1800.
La volontà dei legislatori fu quella di riequilibrare il peso dei vari Stati federali nelle elezioni presidenziali. Alla Camera infatti i 435 seggi sono stabiliti sulla base del censimento della popolazione, mentre i 100 seggi del Senato sono suddivisi in numero eguale per ogni Stato – 2 senatori per ognuno dei 50 Stati – senza tenere conto della popolazione. Il tanto vituperato Collegio Elettorale, frutto della stessa logica del compromesso per la composizione del Congresso e della procedura di revisione costituzionale, è dunque impopolare e avvantaggia gli Stati più piccoli.
Il medesimo compromesso fra gli Stati più grandi e popolosi e quelli più piccoli e meno popolosi ha anche comportato una difficoltà nell’emendare la Costituzione stessa. La più antica Costituzione esistente, nonostante gli urti del tempo, è stata emendata formalmente solo ventisette volte dal 1787. È altresì vero che gli autori, nella loro lungimiranza, hanno previsto un sistema di revisione tale da non mutare la stabilità del dettato costituzionale. Questo potere, concesso sia al Congresso che ai singoli Stati, è previsto dall’articolo V – definito da Sanford Levinson in Our Undemocratic Constitution come una «gabbia di acciaio» con «sbarre quasi di kryptonite» – il quale subordina ogni modifica alla maggioranza di due terzi del Congresso o di due terzi dei legislativi dei singoli Stati e, infine, la ratifica da parte di tre quarti degli Stati confederati.
Appare evidente dunque la difficoltà nel poter modificare la Costituzione e il Collegio Elettorale stesso, soprattutto per l’alto numero di ratifiche richiesto.
La discussione sul sistema stesso e sulle più importanti modifiche costituzionali che i partiti vorrebbero portare avanti segnerà dunque i prossimi anni e decenni, tornando attuale ad ogni elezione e ogni volta che il vincitore del Collegio Elettorale non sarà anche il vincitore del voto popolare, in una di quelle che i politologi americani oramai definiscono “vittoria mozzata” o “vittoria delegittimata”.