di Maurizio Gentilini
Quante sono le strade che portano a Dio?”; “Tante quanto sono gli uomini”. Questa risposta di Joseph Ratzinger alla domanda del proprio biografo Peter Seewald tornava alla mente con grande chiarezza recandosi a visitare il feretro di Benedetto XVI esposto nella basilica di San Pietro, e osservando la varia umanità che componeva la folla composta e serena che si recava a rendere omaggio al pontefice. Medesimo pensiero assistendo ai funerali e alla alluvione di commenti che il mondo dell'informazione ha riservato all'evento e ai contesti (e che ha fatto scoprire di quanti "vaticanisti" disponga la stampa nazionale ed estera).
Chi, come il sottoscritto, nel 2005 ebbe la stessa esperienza nei giorni precedenti la morte di Giovanni Paolo II e seguì quanto accadde nei giorni successivi, ha potuto notare alcune analogie, ma anche delle evidenti differenze.
Tra le due morti, il profondo cambio di epoca e di paradigmi interpretativi della realtà - religiosa e mondana - che ha contrassegnato l’epoca nella quale stiamo vivendo. Joseph Ratzinger era nato ed è vissuto nel Novecento, incarnandone profondamente le logiche, le categorie e le contraddizioni, interpretando e cercando di opporsi ad alcune dinamiche che hanno caratterizzato la civiltà umana al tempo del cambio di secolo e millennio. Credeva ad esempio nella centralità culturale e spirituale dell’Europa rispetto al resto del mondo, e a una Chiesa che potesse svolgere una funzione di guida morale per il vivere civile. Si era imposto ai tempi del Concilio Vaticano II come un acuto e raffinato interprete delle istanze di riforma che emergevano con potenza dalla Chiesa nel suo rapporto con il mondo. Nella stagione successiva sarebbe stato il custode della tradizione, della continuità e del rigorismo dottrinale, tetragono a proteste e polemiche generate da documenti che portavano la sua firma, come quello del 2000 che afferma che la Chiesa cattolica romana è l’unica depositaria della Verità e della salvezza.
Nel contempo fu il primo a rompere ogni indugio nella denuncia della “sporcizia” che alberga dentro la Chiesa, a inaugurare alcuni percorsi di riforma degli apparati e delle coscienze, e a rendere canonicamente e teologicamente ammissibile - pur in presenza di precedenti di epoca medievale - che un pontefice potesse dimettersi.
Il suo pensiero ha sempre coniugato l’analisi razionale con la dimensione esistenziale, indagando tutti i moti dell’anima umana e ponendoli a confronto con la fede. Una riflessione profonda, che mirava all’interiorità e rifuggiva ogni forma di violenza, affermando che questa “è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima”.
I fedeli che in questi giorni si recavano al cospetto del feretro di Benedetto XVI esprimevano la sua visione – per molti versi profetica – di Chiesa, formulata alla fine degli anni sessanta.
Una Chiesa di minoranza, “rimodellata dai santi”, poco influente sul mondo, socialmente irrilevante, ridimensionata e costretta a ripartire dalle origini, con una identità più semplice e spirituale, che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza.
Chi avrà perduto il senso di Dio, scoprirà allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: “lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.