di Simonetta Fasoli
“ L’istruzione (n.d.r. ‘education’, nella versione originale) non prepara alla vita, è la vita stessa.”
John Dewey, Democrazia e educazione, 1916
Ho scelto questa citazione, in apertura del mio articolo, perché mi sembra che possa ben esprimere la sintesi delle questioni sulle quali si sta dipanando il dibattito, culturale prima ancora che politico-pedagogico, attorno all’istruzione e alla scuola, che ne rappresenta la forma istituzionale storicamente determinata.
E’ degno di nota il termine anglosassone (“education”) nel testo italiano tradotto con “istruzione”: in quel termine troviamo pienamente rappresentato il nesso profondo e, a mio avviso inscindibile, che si pone tra “istruzione” ed “educazione”. Colpisce l’uso di due campi semantici per indicare un processo invece unitario; una frattura che ha radici storiche e che continua ad agire mobilitando posizionamenti, confronti dialettici (nella migliore delle ipotesi) e spesso schieramenti fortemente polemici. Fenomeni certo non inediti che hanno attraversato lo sviluppo del nostro sistema formativo, a volte con fasi più o meno lunghe di latenza, a volte con improvvise recrudescenze, richiamate in vita dalla crucialità dei passaggi di carattere sociale e culturale con una gittata di sguardo che va ben al di là dei temi di cui strettamente qui si vuole trattare.
Tra gli effetti di lungo periodo che è destinata a produrre l’emergenza pandemica in cui siamo stati immersi a partire dagli inizi del 2020 (per opinione unanime considerata come un evento di portata globale, di quelli rari che segnano una cesura storica eccezionalmente rimarchevole) certamente si segnalano quelli che investono i sistemi formativi, in tutte le loro dimensioni. Restando ai confini del nostro Paese, senza perdere di vista uno sguardo comparativo quanto mai opportuno, possiamo a ragion veduta sostenere che l’impatto del fenomeno pandemico ha segnato la nostra scuola in modi non meno dirimenti di quanto non sia avvenuto per altri aspetti della struttura sociale, in ogni sua articolazione. La consapevolezza della portata dei fatti, anche sotto il profilo dell’istruzione e della formazione, ha accentrato l’attenzione sulla scuola e in genere sul sistema formativo destinato alle nuove generazioni in modi inediti, anche se non sempre consequenziali sul piano delle decisioni. Potremmo dire che la scuola si è fatta sentire soprattutto nella circostanza della sua assenza, o come qualcuno dice dell’assenza di una sua “forma”. Come un “corpo ferito” (in altri scritti ho usato questa metafora…) che subisce una sincope temporale, una decisa rottura dell’unità di tempo, di azione, di luogo (inevitabile il riferimento alle categorie della rappresentazione teatrale classicamente intesa…). Non entro nel merito della capacità di resistenza espressa dal corpo della scuola, dell’efficacia della sua risposta in termini sistemici e individuali: non è questa la sede per analizzare sia pure nelle linee generali questi aspetti. In questa sede, ai fini delle riflessioni che voglio proporre, mi interessa sottolineare che un trauma comunque c’è stato e che mi sembra stia mettendo capo ad almeno due ordini di reazioni, a livello sistemico e dunque culturale: da un lato, la tendenza ad enfatizzare il cambiamento (“nulla sarà come prima”) come un’opportunità di uscita dalla crisi esplorando strade inedite, provando a forzare il sistema nelle sue incrostazioni pluridecennali; dall’altro, la tendenza a riconvertire il processo (“nulla sarà come prima”) verso una riscoperta dell’autenticità della mission che sembra, ai fautori di questa posizione, smarrita dietro alle sirene del modernismo.
Nell’uno e nell’altro caso, a me pare che l’urgenza di costruire schieramenti attorno alle due posture, come spesso succede, sconti qualche semplificazione di troppo. Non sto parlando, ovviamente, dell’accuratezza delle analisi di merito, che stanno mettendo capo a documenti più che dignitosi per coerenza interna e chiarezza di esposizione. Mi riferisco alle premesse sottostanti alle argomentazioni, su cui vale la pena fare qualche affondo di analisi. In ogni caso, mi pare abbastanza evidente che la forza argomentativa dei testi che si stanno diffondendo utilizzi in buona parte lo schema della polarizzazione: uno schema che in educazione, a mio parere e guardando anche alla storia del sistema formativo nelle sue vicissitudini, non dà frutti di grande portata e valore.
Qualche esempio, per entrare nel vivo delle riflessioni. La prima (macro) polarizzazione riguarda il binomio “istruzione/educazione”, che enfatizzando a turno l’uno o l’altro termine condanna, per così dire, i fautori della prima e della seconda a non intendere pienamente quell’impresa complessa, tipicamente umana, che ha sfidato separatezze secolari per ricondurre ad unità articolata i fenomeni formativi tradotti in termini culturali e in contesti istituzionali. Qui mi riallaccio alla citazione di Dewey, riportata in apertura, eloquente nella sua eccezionale capacità di sintesi. Pur ammettendo che, come ogni citazione estrapolata dal proprio contesto, rischia una qualche forzatura interpretativa, non è improprio intravvedere in quella affermazione la radice ultima di ogni forma di attivismo pedagogico che non si riduca ad un banale inno al saper fare (come non di rado è accaduto e, ahimè, continua ad accadere…). Qui è in gioco la relazione tra “education” e vita: l’una resa significativa dall’altra, e tutte e due vive proprio nella loro interconnessione. Tradotto in termini progettuali e pedagogici: non basta “gettare” il/la bambino/a nell’esperienza im-mediata per fare di questa un percorso educativo (intenzionale); non basta neanche chiuderlo in vitro, nella separatezza che diventa distanza e rovello della mente, per attivare un percorso di com-prensione. Dunque, per fare riferimento a ipotesi progettuali che sono in campo in queste settimane, sulla scorta della cosiddetta “estate educativa” e del Pnrr predisposto dal governo, non c’è “esterno”, per quanto ricco e stimolante, che possa diventare agente educativo, se non viene “interiorizzato” attraverso gli strumenti dell’interpretazione/comprensione/immaginazione/emozione…E’ proprio questo processo, di cui sono co-protagonisti soggetti in crescita e adulti a vario titolo coinvolti, che fa di un “luogo” un “territorio”. E fa della scuola stessa, nei suoi spazi “animati” dall’intenzionalità educativa, un “territorio”: significativo, nel bene e nel male, nelle sue potenzialità e nei suoi limiti.
In questa mia ricognizione attorno alle tante polarizzazioni, mi sembra anche di particolare rilevanza quella che si sviluppa, non da oggi, attorno al binomio “conoscenze/competenze”, che ricorre in diversi passaggi dei documenti che stanno circolando. Ancora una volta, sembra che la netta separazione tra i due campi lessicali e concettuali favorisca l’apparente congruità degli argomenti a favore delle une o delle altre: in questo caso, pesa la storia politico-culturale che le attraversa, mettendo capo ad una dicotomia che sembra insanabile. Insomma, la “scuola delle conoscenze” e la “scuola delle competenze” si fronteggiano in uno dei classici “giochi a somma zero”, che porta il confronto sul terreno scivoloso della polemica tra la conservazione e l’innovazione: una di quelle semplificazioni che hanno a più riprese ingessato e di fatto ostacolato un aperto e rigoroso dibattito sulle ragioni in campo. Il contrario di un confronto generativo, l’unico pertinente ai fatti dell’educazione.
Come si esce da questo sterile, fuorviante posizionamento delle “squadre in campo”? Personalmente, ho da sempre osservato, anche nei contesti di formazione in cui mi trovo ad operare, che una spassionata disamina del concetto di “competenza” quale ci è stato consegnato da ricerche pluridecennali in campo psicopedagogico e didattico possa essere di notevole aiuto. Come non è verosimile che il concetto di “classe” sia, oggi, erede diretto e intonso di quel dispositivo di derivazione seicentesca (e “gesuitica”), come certe semplificazioni vorrebbero sostenere, così è rinvenibile, sia in letteratura che nelle documentazioni di programmazione educativo-didattica largamente presenti nelle nostre scuole, un’accezione pedagogica e non aziendalistica del concetto di competenza. Per non dire dei documenti istituzionali che da due decenni fanno riferimento alle competenze: fin dalla prima formulazione (D.P.R. 275/99, Regolamento dell’autonomia, articolo 8 c. 1 punto b. “gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni” n.d.r.: il corsivo è mio). Nelle Indicazioni nazionali del 2012 il riferimento esplicito ai traguardi per lo sviluppo delle competenze costituisce una chiave di volta ricorrente nell’impianto del testo, cui conferisce uno spessore culturale e implicazioni metodologiche che è difficile negare. Dunque, a me sembra poco fondato l’atteggiamento critico più volte espresso nei confronti della nozione di competenza, secondo cui sarebbe rimasta ancorata alla sua originaria derivazione dai contesti produttivi, irrimediabilmente estranei al mondo dell’istruzione e dell’educazione. Le elaborazioni maturate in questo universo di significati, dall’ambito della ricerca psicopedagogica a quello delle cornici istituzionali, stanno a mio avviso ad attestare un’avvenuta e piena emancipazione dal “vizio di origine”.
Tra le definizioni cui ha messo capo questo ormai lungo percorso, segnalo per la sua pertinenza ed efficacia sul piano euristico la seguente:
“Una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo”. (M. Pellerey, 2004)
Si tratta di una accezione di “competenza” che ne mette in rilievo il carattere di costrutto complesso, la natura processuale ed operativa, le dinamiche che l’attraversano, all’intersezione tra interno ed esterno, cognitivo ed emozionale. Se volessimo rappresentare in modo iconico un processo di apprendimento orientato all’acquisizione delle competenze, potremmo immaginare un’architettura in cui conoscenze e abilità costituiscono i “pilastri” su cui poggia la competenza come un architrave: sono dunque gli elementi essenziali per la sua tenuta; d’altro lato, per sé presi, hanno bisogno dell’architrave per tenere insieme la costruzione dell’apprendimento. Questa immagine, che ognuno può visualizzare come gli è più congeniale, fa capire intuitivamente quanto sia discutibile l’opinione di coloro che contrappongono una visione di scuola all’altra, fondata sulla dicotomia conoscenze/competenze. Anche in questo caso, siamo di fronte ad una separazione indotta artificiosamente, a sostegno di posizionamenti politico-culturali che sembrano più funzionali a marcare “identità” e nicchie interpretative che non a descrivere in termini reali l’universo dei processi formativi.
Non sono incline alle sintesi semplificatrici, ma volendo per una volta farne uso potremmo dire, a partire dalle osservazioni precedenti, che le conoscenze e abilità senza le competenze sono «inerti», mentre le competenze senza le conoscenze e le abilità sono «vuote».
Resta da mettere in questione, in una disamina che nell’economia di questo contributo è tutt’altro che esaustiva, un’altra polarizzazione che si va rafforzando ed emerge nel dibattito attuale, con effetti a mio parere altrettanto rischiosi: quella tra “saperi delle discipline” e “saperi pedagogici”. Qui il terreno si fa davvero minato, puntellato da contrapposizioni fortemente stratificate e incrostazioni depositate dal tempo, difficili da scalfire: vi si intrecciano biografie dei sistemi istituzionali (“ah, i guasti della scuola gentiliana…!”) culture accademiche più o meno legittimamente attente alle proprie tradizioni e al proprio patrimonio di ricerca; insomma un viluppo in cui dimensioni politico-culturali e perfino significati simbolici contribuiscono in modo decisivo a costruire le rispettive posizioni. Alcuni dei documenti (“manifesti”) apparsi in queste settimane mi sembrano una eloquente rappresentazione della polarizzazione di cui sto dicendo. Nello zelo di contribuire alla “scuola che verrà”, in questo orizzonte di palingenesi che si profila come effetto tutt’altro che secondario della post-pandemia, ecco profilarsi uno schieramento netto a favore del ritorno alla “scuola delle conoscenze”, simbolicamente sintetizzata nell’ora di lezione (disciplinare), cui rispondono altrettanto nettamente i fautori della scuola finalmente liberata dalla sue eredità “gentiliane” in nome delle metodologie attive, e in definitiva del primato della pedagogia sull’organizzazione disciplinare. Personalmente, devo ammettere che mi riconosco di più in questa seconda postura e che ho trovato la prima irrimediabilmente segnata da un inconfondibile sapore di nostalgia dei “bei tempi”, che belli non erano.
Tuttavia…è la polarizzazione che, ancora una volta, non mi convince, al di là delle buone argomentazioni che sostengono i due fronti. Come negli altri casi di cui ho brevemente ragionato, mi sembra che nell’uno e nell’altro polo si perda qualcosa, guadagnando nella migliore delle ipotesi una visione parziale, dunque verosimile e falsificata al tempo stesso. E il “parziale” che pretende di porsi come l’intero, si sa, rischia una forma di “totalitarismo mentale”: risultato paradossale, quando si tratta di educazione.
Come uscire dalle secche di questa sterile contrapposizione, per raggiungere una prospettiva generativa di cui sentiamo l’urgenza? A me sembra che una buona strategia, per cominciare, possa essere quella di fare tesoro dell’apporto che è rappresentato da una idea pedagogica delle discipline, ampiamente rappresentata, oltre che nell’ambito della ricerca, anche nei testi istituzionali che hanno segnato tappe decisive nell’evoluzione del nostro sistema educativo di istruzione. Da oltre un quarantennio (farei riferimento ai dispositivi della L. 517/77, ai cosiddetti Nuovi programmi della Scuola media del 1979, al percorso del Tempo pieno che ha disegnato la Scuola elementare fino ai suoi Programmi del 1985, per finire alle Indicazioni nazionali e alle Linee guida del Biennio delle scuole superiori) si è andata configurando un’idea non disciplinarista delle discipline. Si può affermare che il disciplinarismo, non le discipline in quanto tali, sia un giusto bersaglio polemico, e che i suoi residui (quanto e come presenti, è da verificare sul campo) siano il retaggio della scuola elitaria disegnata dalla riforma Gentile e mai davvero e per sempre superata.
Nell’ottica della pedagogia, le discipline sono quanto di più lontano dalle “materie” di studio, quelle per intenderci su cui è ancora troppo modellata la produzione editoriale dei libri di testo: parlo delle discipline non come corpi separati di conoscenze, ma come depositi culturali a disposizione dei soggetti in crescita, campi epistemologici rigorosi (nel metodo negli oggetti nei linguaggi) ma aperti al dialogo intra e interdisciplinare. Discipline, per usare una metafora, come modi di raccontare il mondo, come pretesti formativi: in questo senso le pagine dei Programmi del ’79, dell’85 e delle stesse Indicazioni nazionali (2012 e 2018) sono fonti preziose di riflessione psicopedagogica, culturale e metodologica per gli insegnanti delle nuove generazioni.
Una prospettiva formativa di cui ci sarà sempre più bisogno nella scuola che verrà: infatti, la frantumazione dei saperi e la segmentazione delle discipline, ridotte a “materie di studio”, impediscono proprio quella costruzione di apprendimenti significativi, che è in definitiva il compito della scuola come istituzione all’interno della proliferazione di informazioni e di contesti in cui siamo immersi. L’integrazione, al contrario, permette al soggetto di gestire criticamente i propri processi di apprendimento («apprendistato cognitivo») costruendo e de-costruendo mappe di interpretazione, prospettive di descrizione e narrazione della realtà e dell’esperienza.
La posta in gioco per costruire davvero le condizioni di un nuovo sistema formativo di istruzione e educazione, oltre le semplificazioni e le dicotomie che in questa sede ho messo sia pure sinteticamente in discussione, postula un impegno di lungo periodo sul piano politico-culturale e del disegno istituzionale: è urgente superare la giustapposizione dei saperi e la logica enciclopedica sottesa ad una forma di consumismo formativo (Vertecchi) che fa emergere la rapida deperibilità del patrimonio conoscitivo, incapace di rispondere alle sfide della complessità. Selezionare, al contrario, significa ragionare sulle strutture essenziali dell’impianto curricolare e operare scelte coerenti con il progetto culturale complessivo che caratterizza un contesto formativo e, in definitiva, l’idea di educazione in una società.