di Annalisa Libbi

Riflettere sulla scuola dopo il 2020 assume un significato inedito nel quale le conseguenze della pandemia che ha colpito il mondo e, con essa, i suoi traumi svolgono un ruolo da protagonista.

La chiusura delle attività del paese ha riconsegnato, all’istituzione scolastica, almeno nel dibattito, quel ruolo che le è peculiare nel suo intersecarsi e influenzare tutti gli ambiti della vita sociale e, nella crisi di una vita forzatamente reclusa, essa ha rappresentato l’unico aggancio al mondo esterno, una delle poche idee di “normalità” ancora rimaste.

La scuola non è stata chiusa, neanche nei momenti più critici e, tra le tante difficoltà evidenziate da questa condizione straordinaria che il mondo sta vivendo, continua a svolgere il proprio ruolo anche grazie alla serietà e flessibilità dei suoi attori che, dovrebbe essere ricordato più spesso, non sono missionari o volontari ma professionisti nel proprio settore.

Allo stesso tempo, la politica sta vivendo giorni intensi di riflessione, ripensamento e messa a punto di tutte quelle risorse utili ad una ripartenza che dovrà trovare un paese capace di mettersi in discussione, di fare metacognizione per cogliere criticità da risolvere e punti di forza da potenziare.

Con l’obiettivo di porre riparo ai tanti danni economici e sociali a seguito della pandemia di coronavirus, la Commissione europea, il Parlamento europeo e i leader dell'UE hanno condiviso un piano di ripresa che aiuterà l'Unione stessa a risollevarsi dalla crisi e porrà le basi per un continente più moderno e sostenibile.

Non è ovviamente un caso che questo documento, anche nella sua denominazione, next generation EU, abbia una connotazione di futuro e faccia con forza riferimento al termine generazione affinché sia chiaro che questo investimento è pensato per le future generazioni dalle quali, già da prima di questi tempi particolari, veniva forte l’istanza di avere in eredità un mondo migliore.

E’ importante, allora, che la politica sappia cogliere queste istanze per ricollocarle nella specificità che le è propria ovvero la responsabilità di una visione.

L’attuale Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi nel suo recentissimo saggio “Nello specchio della scuola” sottolinea un’inaccettabile realtà che vede l’Italia come “il paese d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET, cioè di ragazzi che non studiano e non lavorano, con un grado di divergenza tra Nord e Sud intollerabile”.

Allo stesso tempo, le indagini Ocse evidenziano che le persone con un titolo di istruzione terziario, università, ITS, guadagnano circa il 50% in più di quelle in possesso del solo diploma di scuola secondaria e che, un simile differenziale, anche se in misura ridotta, si evidenzia anche tra chi possiede un diploma di scuola secondaria di II grado e di I grado; se aggiungiamo che nella media Ocse il tasso di occupazione della popolazione tra i 25-64 anni, con un grado di istruzione universitaria, è di circa 10 punti superiore a quello della popolazione diplomata, comprendiamo bene quali ricadute scuola e formazione abbiano a livello sociale.

L’analisi della realtà deve, ovviamente, sottendere all’impegno della politica dei governi dei prossimi anni poiché, ad essa spetta la capacità di una visione che porti ad investire, in maniera convinta e importante, sulla scuola affinché essa sia innanzitutto un luogo sicuro nel quale vivere l’esperienza educativa e formativa, un ambiente moderno, digitalizzato, capace di trasformare il necessario e non negoziabile sapere tradizionale e il nuovo acquisito in competenze che sappiano gestire la complessità.

Una visione che nasca da un’idea nuova di scuola, che abbia ben chiare e definite le competenze istituzionali e che, sappia lavorare in maniera organica ed efficace; una scuola capace di rinnovarsi ed eliminare ostacoli antichi, di dialogare, collaborare con la comunità senza che le peculiarità territoriali divengano via di marginalizzazione e disuguaglianze;

Mai come in questo momento, con la straordinaria congiuntura che il mondo sta vivendo, sarà necessario rinnovare le sinergie tra territorio e Scuola nella consapevolezza delle competenze di ciascuno.

Saranno fondamentali i Patti educativi di comunità, in un lavoro di concerto tra Enti locali, istituzioni pubbliche e private variamente operanti sul territorio, le realtà del Terzo settore, le scuole e gli Enti locali.

Ma una visione della scuola deve contenere anche una riflessione sulla didattica: può essere questa emergenza occasione di ripensamento nell’ottica di una di flessibilità e innovazione che divengano strutturate?

In questo anno si è sentito spesso parlare di emergenza educativa, della mancata democraticità della didattica digitale quasi a voler attribuire tutta la responsabilità delle tante criticità della scuola italiana, alla diffusione del covid e alle conseguenti azioni intraprese.

Per un’autentica democraticità della scuola, dell'istruzione e della formazione, queste devono assumere un carattere permanente, diritto di tutti sin dall'infanzia, nella vita delle persone che, se educate alla gestione della complessità in una società complessa, potranno poi essere cittadini studenti, lavoratori e costruttori del nuovo.

Pensare una scuola migliore non vuol dire tornare indietro ma, sfruttare questa crisi per velocizzare un cambiamento necessario.

Trovare il coraggio di rivoluzionare il sapere e i suoi metodi di acquisizione, nella comprensione che la realtà è complessa e difficilmente parcellizzabile.

Sarà necessario un coinvolgimento di tutti gli operatori della scuola in una riflessione che si apra alla possibilità di ripensare il concetto di classe e di disciplina, di tempo scuola, di pari dignità dei saperi superando l’impostazione tradizionale che vede il primato del sapere umanistico con, ai margini, il sapere scientifico e tecnologico.

Sarebbe ingenuo immaginare di tornare, per ogni ambito della vita del paese ma soprattutto per la scuola, alla gestione prima del covid, con le sue pesanti contraddizioni, con le categorizzazioni rigide dei saperi e delle tipologie di studenti, la burocrazia ad opprimere con i suoi lacci, la diffusione capillare delle sole scuole primarie, con l'abbandono scolastico che gira ancora attorno a percentuali inaccettabili, soprattutto nel meridione e soprattutto in considerazione dei tanti e costosi interventi degli ultimi anni.

Il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” nella missione 4, Istruzione e ricerca, nella sua impostazione “Europea” contiene, a mio avviso, grandi sguardi al futuro in una progettazione che affronta, in modo integrale ed omogeneo, il sistema istruzione, formazione e ricerca.

Con il potenziamento dell’offerta dei servizi di Istruzione, dagli asili nido alle Università, e della ricerca, affinché si realizzi “la transizione verso un’economia basata sulla conoscenza”, l’azione assume carattere trasversale a sostegno della parità di genere, per le maggiori possibilità e libertà di scelta in ambito lavorativo e per l’accesso all’acquisizione delle competenze STEM, del contrasto alla povertà educativa che tanto influisce sui divari territoriali, della transizione ecologica, di una nuova idea di sinergia tra istruzione, ricerca e società, economi e lavoro.

E’ vero che, come spesso accade, l’investimento economico avrebbe potuto essere anche più consistente ma, penso che mai come in questo momento sia necessario, per tutti gli attori del sistema di Istruzione e formazione, un ribaltamento della prospettiva, una disponibilità a partecipare a quella che si annuncia essere una rivoluzione degli stili di vita e di apprendimento delle conoscenze, ponendosi, ciascuno secondo le proprie competenze, in un atteggiamento di disponibilità al cambiamento che poi altro non è che la capacità di affrontare la modernità e la complessità.

01-05-2021
Autore: Annalisa Libbi
Insegnante, già Vicepresidente di Azione Cattolica dell’Arcidiocesi Metropolitana di Pescara-Penne
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