Giorgio Bartolomucci
In tutti i reparti di terapia intensiva, impegnati nella lotta al COVID 19 o meno, l’uso di antibiotici a scopo preventivo è molto frequente.
L’urgenza unita alle preoccupazioni per la sopravvivenza dei pazienti più gravi fanno sì che le somministrazioni durino molto più a lungo di quanto sarebbe appropriato. Si prova a sfruttare l'efficacia di questi farmaci e una loro tossicità alquanto ridotta. L’antibiotico resistenza, però, non è mai da sottovalutare perché, soprattutto negli ospedali, i superbatteri continuano a replicarsi, diventando rapidamente sempre più pericolosi e meno suscettibili alla maggior parte degli antibiotici attualmente disponibili. Come è noto, il fenomeno è dovuto a un processo di selezione naturale che induce la resistenza verso una specifica molecola ma anche a una modificazione genetica che può determinare un’estensione della resistenza ad antibiotici di altre classi. I racconti di chi assiste i malati gravi giunti con la polmonite da Covid 19 in terapia intensiva, parlano di un’età per lo più avanzata e della concomitanza di importanti patologie che già determinano una minore risposta immunitaria e quindi un rischio per la vita più elevato, soprattutto per l’assenza di farmaci antivirali realmente efficaci.
La terapia diventa quindi di contenimento e una copertura antibiotica appare quasi inevitabile per prevenire soprattutto le infezioni dovute a manovre e presidi medici invasivi. Quando, in un reparto di terapia intensiva già sovraffollato e carico di tensioni, l’urgenza e la drammaticità del momento lasciano poco tempo alla conferma diagnostica e alla individuazione del batterio responsabile della eventuale sovrainfezione, è maggiore la possibilità che passino in secondo ordine i danni legati alla multiresistenza batterica che potrebbe emergere. Questa preoccupazione non è priva di motivazioni scientifiche: è infatti un dato ormai accertato che, anche in tempi normali, nei reparti di terapia intensiva il tasso di nuove colonizzazioni sia molto più elevato e che proprio la tipologia degli interventi attuati dal personale sanitario possa agire come mezzo di trasmissione dei nuovi batteri fra i pazienti. Questa riflessione va letta come una raccomandazione e non come una critica, perché nessuno ignora la gravità dell’epidemia in corso, l’alta mortalità, la virulenza del coronavirus, la durata del ricovero e le condizioni di isolamento spesso improvvisate. Si vuole solo ricordare che una terapia antibioticoterapia empirica, ovvero senza il riconoscimento del batterio coinvolto e la sua suscettibilità alle diverse classi di antibiotici, potrebbe non apportare reali vantaggi per i pazienti da coronavirus in terapia respiratoria ma anzi il contrario.Senza trascurare, infine, che la comune preferenza per antibiotici con uno spettro d’azione molto ampio purtroppo non riduce il rischio dell'eventualità di una antibioticoresistenza, che di fatto potrebbe sfuggire di mano aggravando la già preoccupante epidemia che stiamo vivendo.