di Alessia Amitrano,
La questione del c.d. “Cimitero dei feti” si alimenta successivamente alla denuncia di una donna che, mesi dopo aver subito un aborto, è venuta a conoscenza dell’esistenza di una tomba recante il suo nome inciso su una croce bianca. All’interno di questa tomba era stato sepolto a sua insaputa il corpo del feto non nato. A seguito di tale denuncia, molte altre donne hanno scoperto di essere nella medesima situazione ed è emersa una prassi evidentemente utilizzata da molto tempo.
La prima domanda che sorge dopo essere venuti a conoscenza di tale avvenimento è: come è potuto accadere? Ci si chiede infatti come sia possibile che sia stato utilizzato il nome della madre sulla tomba, in palese violazione della sua privacy, come mai il feto sia stato sepolto a sua insaputa e ancora, quale impatto psicologico possa averle creato tale scoperta. Il tema dell’aborto volontario è sempre stato particolarmente dibattuto da un punto di vista etico e morale: si tratta di una scelta personale, molto spesso difficile e sofferta. In questo ambito, il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, della donna in questo caso, è centrale perché assicura la possibilità di poter scegliere del proprio corpo e del proprio futuro. Il dibattito sull’aborto nasce in relazione alla possibilità che un individuo abbia diritto di scelta per conto di un altro “potenziale” individuo, ponendo un contrasto con il diritto alla vita del nascituro, pure affermato dalla giurisprudenza ma non ritenuto prevalente rispetto al diritto alla salute della donna.
Tema altrettanto critico riguarda i potenziali diritti del feto e dell’embrione. Questi ultimi, infatti, non sono giuridicamente nati, teoricamente non sono quindi considerabili “persone” dal punto di vista giuridico, ma “quasi persone”. In verità, non è chiaro quale momento possa essere considerato come quello di “inizio della vita”: il momento del concepimento o quello della nascita? Di conseguenza, non è chiaro di quali diritti godano il feto o l’embrione. Tale dilemma è precedente rispetto alla vicenda riportata: basti ricordare le diverse posizioni in merito alla ricerca scientifica sugli embrioni o le diverse opinioni riguardo la procreazione medicalmente assistita.
La questione dell’aborto e dei diritti del feto si riverbera su quella relativa al destino del feto, dopo l’intervento abortivo, in relazione all’eventuale diritto alla sepoltura. Le fattispecie che possono venire a crearsi sono principalmente due: lo smaltimento del prodotto abortivo da parte dell’ospedale, come “rifiuto organico” (definizione di natura tecnica contenuta all’interno della procedura per la gestione della medicina necroscopica ospedaliera dell’AUSL di Ferrara), o la sepoltura. Tale differenziazione è strettamente collegata all’età gestazionale del feto, poiché dopo la ventesima settimana di età gestazionale il feto ha sviluppato il suo aspetto esteriore e gran parte dei suoi organi. Mentre fino alla ventesima settimana la sepoltura avviene solamente se richiesta dai genitori, e a loro carico, dopo tale termine è prevista direttamente la sepoltura o la cremazione, su richiesta dell’ASL.
Il dibattito viene ulteriormente alimentato dalla poca chiarezza delle norme riguardanti la sepoltura, ed in particolare del Regolamento di Polizia Mortuaria del 1990 che, oltre ad essere di data poco recente, contiene al suo interno norme in conflitto tra loro, che lasciano spazio a libera interpretazione. Ad esempio, mentre all’articolo 7 del suddetto regolamento la sepoltura del feto sembra attuabile solo se richiesta dai genitori, all’articolo 50 viene dichiarato che i cimiteri devono accogliere i prodotti del concepimento quando non siano state lasciate altre disposizioni, non menzionando quindi alcuna autorizzazione da parte dei genitori. Tra l’altro, è proprio grazie a questi due articoli che alcune associazioni religiose “pro life” hanno avuto la possibilità di seppellire feti non nati ad insaputa delle madri. Infatti, grazie ad apposite convenzioni con gli ospedali, mentre questi ultimi vengono sollevati dai costi dovuti alla sepoltura o allo smaltimento dei prodotti organici, queste associazioni possono perseguire il loro scopo, ovvero dare una degna sepoltura ai non nati come gesto di amore e pietà. Non è tuttavia chiaro a chi debba essere imputata la scelta di utilizzare il nome della madre sulla tomba e soprattutto come mai dati sensibili di una paziente, come quelli riguardanti la salute, possano essere utilizzati al di fuori dell’ospedale e senza il suo consenso. A tutto ciò si aggiunge una disposizione della legge sull’aborto (l. 194/1978), che all’articolo 21 dichiara che chiunque riveli l’identità, o divulghi notizie idonee a rivelarla, della donna che ha subito un intervento per l’interruzione di gravidanza è punito a norma dell’articolo 622 del codice penale.
Altro problema a monte è l’assenza della trasparenza sulla reale prassi seguita dagli ospedali in caso di interruzione di gravidanza. In alcuni documenti vengono menzionati moduli firmati dalla paziente dove questa avrebbe rilasciato disposizioni in merito al destino del feto, ma le numerose testimonianze di donne le cui disposizioni non sono state rispettate fanno pensare al fatto che questi moduli non vengano realmente compilati o comunque rispettati dal personale ospedaliero o dalle suddette associazioni.
Privacy e sepoltura non sono gli unici diritti inerenti alla vicenda, infatti un altro diritto suscettibile di lesione in questa vicenda è quello riguardante il nome. Tale diritto viene in rilievo per quanto concerne la questione se il feto abbia o meno diritto al nome e quale nome si sarebbe dovuto utilizzare sulla tomba nell’assenza dell’assegnazione da parte dei genitori. Dall’altra, con riferimento alle conseguenze sulla madre, ci si chiede se l’utilizzo del suo nome sulla tomba possa aver creato un pregiudizio a suo carico.
Un altro diritto che viene in evidenza è il diritto alla professione religiosa: sulla tomba è stata posta una croce bianca, simbolo proprio della religione cattolica, che non lascia spazio ad eventuali altre religioni professate della famiglia. La domanda sorge spontanea: se non è quest’ultima ad occuparsi della sepoltura, come può essere rispettata la sua posizione religiosa?
Da ultimo, si menzionano il diritto alla salute della madre e il diritto all’oblio. Per quanto riguarda il primo, il riferimento è principalmente relativo alla salute psicologica della donna che, dopo una scelta potenzialmente difficile e sofferta, viene esposta alla pubblica accusa ed alla negazione della possibilità e speranza che l’intervento possa non venire ricordato o scoperto in futuro.
La fattispecie suscita reazioni di diverso tipo e anima un dibattito sempre più acceso. Sarà necessario attendere la pronuncia del Garante della Protezione dei dati personali e degli altri giudici aditi per comprendere quali siano stati i diritti effettivamente lesi nella vicenda presa in esame, e soprattutto se ci sarà la possibilità di definizione di un procedimento specifico che disciplini non solo la potenziale sepoltura del feto, ma definisca un preciso iter per gli ospedali da seguire dopo un aborto.