A dispetto della vulgata comune, il potere imperiale americano non risiede alla Casa Bianca, neanche quando è sostenuta dalla maggioranza del Congresso. Le imponenti macchine dell’amministrazione federale determinano la traiettoria della nazione nel garantire la continuità strategica della proiezione egemonica. L’elezione del presidente, considerata un passaggio importante della parabola imperiale, in realtà si configura essenzialmente come un cambio di rappresentanza e di narrazione. Il caso di Donald Trump, efficace interprete del malessere strutturale del ceppo dominante di ascendenza germanica. 

di Fabrizio Agnocchetti,

Le elezioni americane suscitano sempre grande interesse perché considerate di massima importanza per la traiettoria della superpotenza egemone del pianeta e quindi per gli effetti a ricaduta sulle nostre vite. In realtà il peso dell’inquilino della Casa Bianca è ampiamente sopravvalutato. 

I Funding Fathers avevano una profonda avversione per l’assolutismo monarchico inglese e allo stesso tempo credevano che un’amministrazione virtuosa della Repubblica dovesse essere protetta dai volubili umori del popolo. Dunque da un lato vollero creare un sistema di pesi e contrappesi particolarmente efficace per evitare che un singolo potere sovrastasse gli altri, dall’altro scoraggiarono in vari modi il voto popolare. Ne è uscita una Costituzione nella quale il presidente assume un ruolo simbolico di rappresentanza e di narrazione. Si ritiene a torto quella americana una repubblica presidenziale, si tratta in verità di un regime prettamente parlamentare, poiché il potere politico risiede soprattutto nel Congresso. Il presidente è quasi impotente senza la maggioranza delle Camere e non le può sciogliere. 

Inoltre, nella loro visione piuttosto aristocratica e poco democratica della società, i Padri Fondatori vollero ridimensionare il ruolo della politica in favore di quello dell’amministrazione dello Stato nel definire la traiettoria della nazione. Non a caso nella Costituzione la parola “democrazia” non è mai citata e ancora oggi gli americani chiamano “The Government” la burocrazia statale e non il potere esecutivo. Ovviamente non potevano prevedere che l’America sarebbe diventata il più vasto, pervasivo e potente impero informale su scala planetaria che la Storia abbia mai conosciuto, quindi non avrebbero mai immaginato che l’amministrazione federale avrebbe assunto le gigantesche dimensioni attuali. La crescita ipertrofica degli apparati statali, soprattutto nel secondo dopoguerra, è stata tale da far venir meno proprio quel bilanciamento dei poteri cercato e realizzato sin dalla fondazione.

Il più grande datore di lavoro al mondo non è una delle multinazionali private presenti su scala globale – Wal Mart, Mc Donald’s, Coca-Cola, per citarne alcune – né l’esercito di uno dei due Paesi più popolosi del mondo – India e Cina - ma il Dipartimento della Difesa americano (“Pentagono”) con i suoi quasi tre milioni di dipendenti. Senza considerare quelli secretati (“classified”) e gli impiegati da società private alle sue dipendenze, come, ad esempio, i “contractors”. I servizi segreti statunitensi costituiscono un corpo estremamente ampio e articolato, composto da ben diciassette agenzie di intelligence – tra cui la più nota, la CIA - non di rado con visioni e tattiche divergenti, in forte competizione tra di loro. Considerando la complessa rete di organizzazioni, think tank e imprese a esse collegate è difficilmente calcolabile il numero esatto degli effettivi totali impiegati nel settore. Nel 2010 il Washington Post azzardò una stima approssimativa per difetto, che contava fino a oltre ottocentomila individui che avevano accesso a informazioni “classificate” della sicurezza nazionale. Numero necessariamente parziale, perché non può tener conto di un numero imprecisato di agenti sparsi per il pianeta, che non compare nei registri ufficiali perché sotto copertura.

Se consideriamo la macchina federale statunitense nel suo complesso, arriviamo a oltre cinque milioni di dipendenti registrati. Tra di loro migliaia di funzionari in ruoli apicali, supportati da decine di migliaia di tecnici con competenze specifiche, amministrano e hanno la responsabilità sui quadranti del globo terracqueo loro assegnati. Una vera e propria struttura organizzativa capillare di matrice imperiale, che de facto colloca il potere di “governo” del pianeta nelle mani degli apparati dello Stato americano.  

Indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca e dal colore politico del Congresso, le imponenti macchine dell’amministrazione federale assicurano la continuità strategica dell’impero, i cui pilastri strutturali sono il controllo di tutti i mari del pianeta e il dominio dell’Europa. Per il loro mantenimento e consolidamento è assolutamente necessario impedire che la Germania converga geopoliticamente verso la Russia e la Cina e che Pechino assuma il controllo del mar Cinese grazie alla conquista di Taiwan. Nessun inquilino della Casa Bianca e nessuna maggioranza del Congresso potranno mai abdicare a tali imperativi strategici di lungo periodo, gli apparati non glielo consentirebbero.

Gli Stati Uniti non sono una nazione ordinaria, ma un impero multinazionale, fin dalla fondazione dominato dal ceppo anglosassone-celtico (inglesi, scozzesi e irlandesi), successivamente fuso in quello germanico (tedeschi e scandinavi), divenuto maggioritario grazie alla grande immigrazione dell’Ottocento. Concentrati maggioritariamente nel Midwest e, più in generale nella parte continentale del Paese, i Deutschamerikaner, caratterizzati da rigida disciplina sociale, elevata produttività e grande appartenenza comunitaria, hanno costituito la spina dorsale dell’imponente sviluppo economico e della soverchiante forza militare, che hanno condotto l’America a conquistare e sottomettere il pianeta. Ma essere in prima linea nel mantenimento e consolidamento della supremazia mondiale è compito estremamente gravoso e non solo per la perenne condizione bellica che impone. Come l’Impero Romano e l’Impero Britannico che li hanno preceduti, gli Stati Uniti d’America non possono prescindere da altri due elementi strutturali del loro status egemonico: il gigantesco deficit commerciale e l’imponente flusso immigratorio. Il primo è necessario per tenere le “province” economicamente dipendenti, assurgendo ad acquirente di ultima istanza dei loro prodotti; il secondo è inaggirabile per mantenere la società altamente dinamica e competitiva e soprattutto la popolazione giovane, aggressiva e violenta. I sacrifici economici imposti dalla deindustrializzazione, l’assorbimento e l’assimilazione di quantità sempre crescenti d’immigrazione e il continuo sforzo bellico, hanno generato e fatto crescere nel ceppo dominante quel malessere che caratterizza tutti i grandi imperi nella loro fase matura. Negli Stati Uniti ha cominciato a manifestarsi con il secondo mandato dell’amministrazione Bush e da allora non ha cessato di crescere.

Emblematico rappresentante del ceppo dominante germanico, Donald Trump ha saputo farsi interprete del suo malessere. I pilastri elettorali del MAGA vanno a incidere proprio sulle tre sue maggiori cause, al fine di alleviarlo: reindustrializzare il Paese, abbattere il flusso immigratorio, chiudere le guerre e riportare casa i soldati. Programma eminentemente irrealistico, perché configurerebbe un ritiro dell’America dal suo impero per chiudersi in un anacronistico isolazionismo nazionalista. Gli apparati dello Stato non lo permetterebbero mai, come testimonia il primo mandato del Tycoon newyorkese. I suoi propositi a dir poco velleitari di ridimensionare a tal punto il potere dell’amministrazione federale – Deep State, come è solito chiamarla con connotazione negativa - da elevare la Casa Bianca, supportata dalla maggioranza del Congresso, a determinare una nuova postura geopolitica isolazionista, si scontrano necessariamente con la materiale impossibilità di realizzare lo Spoil System di decine di migliaia di burocrati altamente specializzati. Ma anche nell’ipotesi in cui il presidente riuscisse miracolosamente in una tale impresa titanica, la stessa anima profonda del Paese non accetterebbe mai di abdicare al ruolo di superpotenza egemone del globo. La propaganda elettorale si ritrova a fare i conti con la realtà dei fondamentali geopolitici.

 

Tuttavia gli impiegati del cosiddetto Deep State sono in massima parte membri del ceppo dominante, quindi fortemente sensibili e ricettivi ai suoi umori. L’assalto a Capitol Hill di quasi quattro anni fa ha rappresentato un punto di rottura importante nella parabola imperiale di Washington, poiché gli apparati non hanno affatto sottovalutato quell’acuta manifestazione di malessere portata nella Capitale dalla pancia del Paese.

 

Ciò spiega il cambio epocale di postura che gli Stati Uniti hanno inaugurato durante l’amministrazione Obama, fortemente accelerato dopo l’assalto al Campidoglio sotto l’amministrazione Biden. L’America sta ridimensionando il più possibile il suo intervento e financo il suo presidio sugli scacchieri ritenuti meno strategici, appaltandoli a suoi agenti di prossimità (“proxy”). Un esempio su tutti il Medio Oriente, dove gli apparati hanno lavorato alacremente per una convergenza tra Israele e i Paesi arabi sunniti al fine di contenere l’Iran, arrivando alla firma dei “Patti di Abramo”. Figlio dello stesso ridimensionamento, il disimpegno dall’Afghanistan si è svolto in modo “disordinato” - a voler usare un eufemismo - perché sul ritiro e la contestuale consegna del Paese ai Talebani non vi è stata convergenza, ma piuttosto una vera e propria spaccatura tra le diverse agenzie federali. Nel Sahel, in seguito alla nuova postura di Washington, i francesi non sono riusciti a mantenere tutte le posizioni e alcune tradizionali roccaforti del (neo)colonialismo transalpino sono finite nelle mani dei russi. Contemporaneamente e simmetricamente gli apparati hanno intensificato il presidio degli scacchieri giudicati strategici, come la Germania, l’Est Europa e l’Estremo Oriente. 

L’istituzione dei dazi o comunque l’assunzione di politiche di incentivi all’industria americana, iniziata sotto Obama, proseguita durante il primo mandato Trump e accelerata sotto Biden, non ha l’obiettivo illusorio e anti-imperiale di reindustrializzare il Paese, ma quello concreto e strategico di ridimensionare gli enormi surplus commerciali di Cina e Germania. Entrambi i paesi li usano soprattutto per contenere le forti spinte centrifughe interne, che altrimenti dilanierebbero la loro unità nazionale. Surplus di cui allo stesso tempo beneficiano le loro proiezioni, più o meno consapevoli, di egemonia geo-economica regionale e/o mondiale. Tuttavia l’effetto secondario di una certa reindustrializzazione generato dalle misure, non può che alleviare il malessere economico del ceppo dominante.

La costruzione del muro per sigillare il confine messicano, iniziata durante l’amministrazione Obama e nettamente accelerata negli ultimi quattro anni, non ha lo scopo nazionalista e irrealistico di arrestare il flusso di ispanici in entrata, ma l’obiettivo squisitamente imperiale di agevolare l’assimilazione degli immigrati, creando una separazione fisica che recida i loro legami culturali con la madrepatria.  

 

Il risultato delle elezioni dunque non fa che confermare una tendenza strutturale in atto da almeno un ventennio nella società statunitense: il malessere del ceppo dominante. L’America continentale di ascendenza maggioritariamente germanica, che sostiene il gravoso fardello imperiale, è frustrata e arrabbiata. Nutre rancore verso le Coste e le “province” dell’Europa occidentale – “La vecchia Europa”, secondo la celebre definizione di Donald Rumsfeld – considerate alla stregua di parassiti che vivono alle sue spalle, in qualità di maggiori beneficiari della Pax Americana senza contribuire ai sacrifici necessari per difenderla. Frustrazione e rabbia che è stato abile a raccogliere e narrare Donald Trump, trionfando nel confronto elettorale.

 

Lungi dal rappresentare una “svolta” o addirittura una “nuova era”, l’elezione del Tycoon newyorkese alla Casa Bianca rafforzerà, soprattutto nella narrazione, la nuova postura geopolitica che gli apparati federali portano avanti dalla fine degli anni Dieci. Probabilmente i dazi aumenteranno, soprattutto verso le merci tedesche e cinesi. Sicuramente i “partner” europei saranno spinti ad assumersi maggiori responsabilità all’interno della NATO per contribuire a difendere la Pax Americana dai suoi antagonisti. Sul tema cambieranno i toni, che saranno molto meno amichevoli, rispetto alla precedente amministrazione, ma la sostanza resterà la stessa. Si procederà sempre più speditamente alla costruzione del muro, non per respingere, ma per assimilare al ceppo dominante il flusso, sempre crescente, d’immigrati ispanici.

 

L’America è impero o non è, non può diventare una nazione ordinaria. Non ha mai concepito la figura dell’imperatore, proprio perché nata in opposizione all’assolutismo monarchico. Non può essere un singolo uomo, per quanto carismatico, per quanto beneficiario di un ampio consenso, a modificare i fondamentali geopolitici di una collettività. Ancor meno se eminentemente imperiale come quella americana.       

18-12-2024
Autore: Fabrizio Agnocchett
meridianoitalia.tv