di Alfredo Battisti
Lutto nazionale nel Regno Unito, per dieci giorni, e così anche nei Paesi che riconoscevano Elisabetta II come proprio Capo di Stato: il doveroso omaggio a colei che ha portato la Corona per 70 anni, traghettandola dall’Impero coloniale al Commonwealth delle Nazioni, e rendendo la Monarchia un istituto a proprio agio anche nelle mutate condizioni storiche.
Eppure ciò che stupisce è il cordoglio che proviene da terre straniere – certo amiche e alleate –, ma che va ben oltre il protocollo e assume una portata tale da “stonare” con il minor lutto portato per la morte dei propri Capi di Stato.
Basti pensare a qualche vistoso esempio, nel Vecchio e nel Nuovo Continente: bandiera a mezz’asta sulla Casa Bianca, a capo di quelle che furono le tredici colonie ribelli agli avi di Sua Maestà; la Tour Eiffel spenta per omaggiare la sovrana inglese; le bandiere europee a Bruxelles listate a lutto per la dipartita – absit iniuria verbis – della suocera, ossia del Capo di Stato di quel Regno Unito con il quale si è da poco consumato il doloroso divorzio della Brexit. Nemmeno lo Stivale è rimasto indifferente all’evento che sembrava non dover mai realizzarsi – e del quale si è sempre parlato con la convinzione che sarebbe avvenuto in un futuro estremamente remoto tanto da non doverlo neppure considerare seriamente, quasi come l’Apocalisse – e anche la nostra televisione di Stato – insieme allle altre principali reti televisive – ha interrotto la programmazione per dedicarsi a intensi TG speciali per seguire le vicende di Oltremanica e ripercorrere questa seconda epoca elisabettiana. Soprattutto impressiona la commozione che investe ogni fascia della popolazione, perché Elisabetta era già sovrana quando i nostri nonni erano ancora giovani e per noi, giovani oggi, godeva di una popolarità e di un rispetto che non è usuale indirizzare né a un qualsiasi personaggio famoso né tantomeno a un qualsiasi altro Capo di Stato, interno o estero. Un clima che probabilmente perdurerà fino ai solenni funerali del 19 settembre e che – a giudicare dagli ultimi TG – sarà in grado di oscurare del tutto anche la vivacissima campagna elettorale che stiamo vivendo.
Sorge una domanda: «Perché?»
Senza alcuna intenzione di delegittimare o affievolire tali manifestazioni di vicinanza al popolo britannico, è lecito domandarsi il motivo di tanta partecipazione al dolore e svolgere alcune riflessioni di più ampio respiro.
È evidente che non si tratti di un rispetto dettato dal galateo istituzionale, perché coinvolge – come abbiamo rilevato – anche e soprattutto i normali cittadini del mondo e non solo i governanti. Né tutto ciò è dovuto a particolari azioni compiute dalla Regina Elisabetta a cui magari si è particolarmente grati in quanto avrebbero impresso una svolta alla storia – è noto infatti che i poteri costituzionali della Sovrana inglese sono addirittura minori di quelli di cui gode il Quirinale e sono pressoché totalmente cerimoniali –. Cosa allora?
In realtà, si piange ovunque la Regina Elisabetta perché è la morte di un simbolo, la fine di una sicurezza. Mutava la geopolitica mondiale, si trasformava la società, cadevano Governi – in Italia sessantadue –, scoppiavano guerre, bombe terroristiche e pandemie, addirittura cambiavano i Papi – ben sette! –, si nasceva e si moriva, ma a Buckingham Palace c’era sempre lei. Un punto fermo.
Ovviamente avere Elisabetta II sul trono non era fonte «sicurezza» intesa come una mera tranquillità o rassicurazione dinnanzi ai problemi che attanagliano la vita, è ovvio. Intendiamo invece dire che l’8 settembre si è consumata la fine una “sicurezza simbolica”: il cordoglio per la morte della Sovrana è legato non tanto alla sua persona, ma a ciò che rappresentava. La fine di una rappresentazione, appunto. La morte di un simbolo.
Si badi che con ciò non si sta prescindendo affatto dalle caratteristiche contingenti della persona fisica, poiché certamente la forza di un simbolo è direttamente proporzionale alla sua permanenza nel tempo: se Elisabetta ha rappresentato qualcosa – e noi lo sosteniamo – lo ha fatto per settanta lunghi anni; chiunque altro rappresenterà la stessa cosa, non avrà la stessa autorevolezza, fosse semplicemente perché si troverà a fare i conti con lei, simbolo più duraturo e dunque più forte.
Quale simbolo?
«Il termine "simbolo" deriva dall'unione del prefisso σύμ- (sym-), "insieme" con il verbo greco βάλλω (ballo) "getto”, letteralmente significa quindi "mettere insieme", unire, armonizzare; ciò ci permette subito di cogliere nella sua etimologia il significato profondo dell’unità, quasi metafisica, tra significante e significato, idea e rappresentazione che questo termine racchiude in sé»[1]. E la Regina Elisabetta II era portatrice di valori che trascendevano la sua persona: «era l’incarnazione della tradizione nel gran circo della post modernità, come un classico che parla ai vivi, come Shakespeare che ispira le sceneggiature di Hollywood. Ti raccontava la profondità della storia, senza apparire fuori dal tempo» ha scritto plasticamente Vittorio Macioce sulle colonne de Il Giornale. In fondo era questo il ruolo che la Regina aveva in Inghilterra: essere la custode dell’impianto costituzionale in un Paese in cui esso non è scritto in una Carta fondamentale, ma è frutto di innumerevoli vicende di una lunga storia e di antiche consuetudini da tramandare.
È sufficiente richiamare le immagini in bianco e nero riproposte nelle ultime ore che, nonostante le scenografie pienamente medievali, non vengono da una vecchia pellicola di Robin Hood ma dall’incoronazione di Sua Maestà, nel 1953. I troni e gli scettri, l’olio sacro per consacrare la sovrana, acclamata Regina da conti e duchi dai mantelli ermellinati e incoronata da Arcivescovi, carrozze e trombettieri, cavalieri e paggetti, non sono un inutile retaggio di tempi andati, ma costituiscono la linfa vitale della Monarchia inglese, non per quello che sono, ma per ciò che rappresentano. Per il significato che portano. Allo stesso modo si svolge, ad esempio, la rituale apertura del Parlamento inglese, con le ispezioni nelle cantine di Westminster in ricordo della sventata Congiura delle polveri, con la porta sbattuta in faccia al Black Rode che convoca i deputati davanti al Sovrano, a memoria della ingiuriosa irruzione di Carlo I nella Camera dei Comuni, che porterà alla guerra civile per confermare l’indipendenza del Parlamento.
Tutto ciò è stata Elisabetta per settanta lunghi anni, e ha ricordato a cosa serve la Monarchia nella più antica e solida democrazia della storia: «insegna il dovere, che è fare quello che si deve fare. Non importa quanto ti costa, quanto di te e dei tuoi cari sacrifichi, quante scelte ti tocca fare che da privato cittadino non vorresti mai affrontare. La corona pesa e sta su un trono di spade. La corona era il mestiere di Elisabetta e grazie al suo lavoro ha reso solida la democrazia britannica, perfino negli anni più bui» continua Vittorio Macioce.
Con tali premesse è facile capire perché l’Inglese non possa non essere convintamente democratico e geloso all’indipendenza del Parlamento, e allo stesso tempo visceralmente monarchico tanto che, cantando fieramente l’inno nazionale, non fa altro che dire: «Dio salvi la nostra benevola Regina! A lungo viva la nostra nobile Regina, Dio salvi la Regina! La invii vittoriosa, felice e gloriosa, a regnare a lungo su di noi, Dio salvi la Regina!». Per la Regina, ma forse, anche inconsciamente, per quello che ella rappresenta.
Abbiamo bisogno di simboli?
Per noi Italiani, e in generale per tutti coloro che provengono da sistemi giuridici di civil law, è difficile comprendere tutto ciò. L’esaltazione del Sovrano può sembrare una blasfemia anti-democratica, un paradosso della storia così anticamente democratica dell’Inghilterra, se non si coglie il significato ulteriore. La fedele e meticolosa ritualità che richiama affascinanti cerimonie medievali è un linguaggio che non ci appartiene più. Eppure il suo sapore misterioso, la incondizionata devozione a un Sovrano – invece che a un’astratta idea di Repubblica – a cui giurare fedeltà, tutto ciò ci incanta irrimediabilmente: e lo testimonia l’attenzione ossessiva che i nostri media riservano alle cerimonie reali inglesi o, ad esempio, ai riti – anch’essi enigmatici e celati – dei Conclavi vaticani.
La nostra storia ci ha portato a perdere il senso del simbolo, del significato ulteriore, da custodire, celato a una conoscenza immediata e da ottenere con uno spirito di scoperta. Complici di ciò anche i nuovi mezzi del sapere, che a precisa domanda digitata su una tastiera confezionano una esatta risposta, disponibile senza una faticosa ricerca.
Anche dal punto di vista istituzionale, sembrerebbe che l’Italia sia sprovvista di simboli veramente sentiti dal popolo con attaccamento e devozione. Paradigmatiche furono in ciò le parole di Umberto II, il Re di maggio, che alle soglie del Referendum costituzionale affermò: «La Repubblica si può reggere con il 51%, la Monarchia no. La Monarchia non è un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini incredibile volontà di sacrificio. Deve essere un simbolo caro o non è nulla». E infatti gli Italiani scelsero la Repubblica e si diedero dei Padri Costituenti che non ebbero alcuna velleità di creare un simbolo nuovo.
Ciò in parte è dettato dalla natura stessa dell’istituto repubblicano, che non può nutrirsi di persone “ad alta carica di simbolicità” stante il continuo e intrinseco avvicendarsi di soggetti in una stessa carica. La figura del Presidente della Repubblica, infatti, pur essendo un simbolo in quanto «rappresenta l’unità nazionale» ai sensi dell’art.87 della Costituzione, ha un mandato settennale che gli impedisce di assumere i connotati che possono raggiungere sovrani di lungo corso.
In Italia però manca anche un simbolo impersonale. Il tricolore – che pure è intimamente legato alla storia nazionale e al sentimento che ha condotto all’unificazione della Penisola – non gode certamente di grande popolarità, a parte nelle manifestazioni sportive, e in particolar modo dopo le vittorie. Non si vedono infatti sventolare per le strade italiane e sui balconi delle nostre città alle più grandi ricorrenze civili, come invece accade, ad esempio negli Stati Uniti, ove fuori ogni casa sventola spesso la bandiera a stelle e strisce. Neppure riserviamo al 2 giugno un valore particolarmente emotivo o caloroso, come ad esempio avviene in Francia per la Presa della Bastiglia. Ciò è frutto certamente delle diverse circostanze storiche: quello repubblicano fu un «debole mito di fondazione»[2], fosse solo perché il Paese era diviso quasi a metà e la vittoria sui monarchici era stata netta, ma non schiacciante, tant’è vero che non ci furono festose parate di popolo, ma il nuovo corso istituzionale fu salutato da scontri di piazza, anche sanguinosi. Bisognava pertanto evitare l’esasperazione e tenere il Paese calmo, per traghettarlo verso la neonata Repubblica.
Ci ritroviamo quindi sprovvisti di simboli forti, tali da poter trascinare le masse verso un afflato emotivo, patriottico e identitario, e i simboli sorgono spontaneamente, non ci se li dà in modo arbitrario, a freddo, magari decenni dopo.
Forse proprio questa è la miccia fatale che ci porta a tributare alla Regina Elisabetta – e all’Inghilterra in generale – un’ammirazione smisurata: un pizzico di invidia per un simbolo in cui rispecchiarsi, in cui ritrovarsi uniti, per cui combattere.
Forse però, questa è anche una grande responsabilità che i Padri Costituenti volevano lasciarci: il primato della razionalità e del disincanto, della democrazia come scontro-incontro implacabile e insostituibile, senza nessun elemento «mistico, irrazionale» a guidare il popolo. Non avremo magari episodi trionfali e miti di unità nazionale, ma dietro la tentazione di vedere solo una sconsolante e poco invidiabile frammentazione, potremo scorgere una opportunità di confronto e di cammino da fare insieme.
[1] https://www.etimoitaliano.it/2013/12/etimologia-della-parola-simbolo.html
[2] Maurizio Ridolfi, in Dino Messina, 2 giugno 1946. La battaglia per la Repubblica