di Lucio Martino

Anche quest’anno, a decidere l’identità del prossimo inquilino della Casa Bianca saranno cinquanta distinte elezioni. Per vincere la presidenza, non basta vincere una maggioranza dei voti, occorre che tali voti siano distribuiti all’interno del territorio nazionale, in modo da vincere anche una maggioranza di stati. Non per niente, quattro anni fa, Donald Trump prese oltre due milioni di voti in meno ma vinse in trenta stati, mentre Hillary Clinton pur prendendo oltre due milioni di voti in più, vinse solo in venti stati.

Questo meccanismo elettorale complica di molto il lavoro dei sondaggisti d’opinione. Sempre quattro anni fa, quest’ultimi centrarono con una buona approssimazione le percentuali di voto che a livello nazionale sarebbero andate all’uno e all’altro candidato, ma fallirono miseramente le percentuali relative a quel gruppo di stati tradizionalmente in grado di votare tanto democratico quanto repubblicano. Negli ultimi trent’anni, sono venti gli stati votano stabilmente democratico e sono altri venti quelli che votano altrettanto stabilmente repubblicano, di fatto annullandosi reciprocamente. L’attenzione degli osservatori, e gli sforzi dei candidati, si concentrano così su stati teoricamente aperti a qualsiasi risultato quali Florida, Iowa, Michigan, North Carolina, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin.

Come quattro anni fa, i sondaggi danno Trump in svantaggio in tutti questi stati. Eppure, la possibilità di un errore analogo a quello fatto allora sembra tutt’altro che improbabile. Ogni previsione è resa poi ancora più complicata dal fatto che la pandemia ha creatole condizioni per un’estensione del voto per posta privo di precedenti, tanto che all’apertura ufficiale delle urne, prevista per il 3 novembre, avranno già votato un numero di elettori dell’ordine dei due terzi di quanti si sono recati alle urne la volta precedente. In genere, si ritiene che una maggiore affluenza alle urne torni a vantaggio dei democratici. Tuttavia, l’incremento nel numero dei votanti registrato tra il 2012 e il 2016 è andato tutto a vantaggio dei repubblicani. Non solo, quest’anno è poi difficile stabilire a priori in che direzione andrà il voto di un elettorato più giovane tradizionalmente democratico ma al tempo stesso spaventato dalla strategia anti-pandemica prospettata dall’ex vicepresidente Joe Biden. L’insieme di queste circostanze, e altro ancora, offre poche certezze in merito a un risultato destinato molto probabilmente a farsi attendere per diversi giorni, e a un rischio di controversie legali da far apparire insignificanti quelle che infine risolsero le elezioni presidenziali venti anni fa.

Con il passare dei mesi, i toni della campagna elettorale hanno assunto un’importanza ancora maggiore dei contenuti della stessa. Tanto Biden quanto Trump, più che nello scommettere le proprie chances di rielezione sulle peculiarità dei propri programmi, hanno soprattutto scelto di presentarsi come alternativi alla catastrofe a loro avviso costituita dal proprio avversario, orientando il dibattito in una direzione così “negativa” come poche altre volte in precedenza, nella quale l’obiettivo è portare al voto quanto più possibile delle fasce estreme dei rispettivi schieramenti politici, invece che tentare di portare dalla propria parte l’elettorato moderato. Questo mentre la campagna elettorale democratica si è sostanzialmente fusa con la quasi totalità dei mezzi d’informazione, social media compresi, fomentando non poche polemiche sull’effettivo stato della democrazia statunitense. Le elezioni generali 2020 hanno così avuto l’effetto di elevare ulteriormente il già elevato livello di polarizzazione tipico del sistema politico statunitense degli ultimi tempi.

Inoltre, se da una parte è forte il consenso secondo il quale la Camera dei rappresentanti resterà sotto il controllo dei democratici, la maggioranza repubblicana al Senato sembra a rischio. Molto dipenderà dalla capacità di traino del presidente in carica, ma almeno tre dei senatori repubblicani in cerca di rielezione sembra stiano andando incontro alla sconfitta, al punto da rendere ipotizzabile una situazione nella quale sarà il voto del vicepresidente a sbloccare lo stallo di un Senato diviso tra cinquanta senatori democratici e cinquanta senatori repubblicani. D’altra parte, non molto dovrebbe cambiare per quanto riguarda il numero di governatori dell’uno e dell’altro partito, al momento pari a ventiquattro per i democratici e ventisei per i repubblicani, sebbene siano proprio questi ultimi a correre più rischi, posto che ben otto degli undici stati che a novembre rinnoveranno anche queste posizioni sono attualmente nelle loro mani.

31-10-2020
Autore: Lucio Martino
Guarini Institute For Public Affairs
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