di Valerio Giorgi
La storia insegna che gli eventi fondativi degli Stati sono quasi sempre cruenti.
La Repubblica Italiana nata dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946 è indubbiamente figlia della Seconda Guerra Mondiale, delle tragedie da essa scaturite ed è nata grazie al sacrificio di innumerevoli vite.
Eppure, la storia della festa della Repubblica presenta anche una peculiarità tutta sua.
Il referendum istituzionale venne infatti indetto con il decreto legge luogotenenziale n. 151/1944, quando cioè la guerra era ancora in pieno svolgimento: ancorché il fascismo fosse caduto da un anno (il 25 luglio 1943) e le sorti del conflitto apparissero oramai delineate, la conclusione delle ostilità era ancora di là da venire (e sarebbe in effetti giunta soltanto il 25 aprile 1945). Vi era dunque grande incertezza sui rischi che una decisione presa con tanto anticipo e con così ampio differimento potesse recare con sé.
Eppure, tutte le forze politiche dei vari Comitati di Liberazione, poi confluite nel CLN, e che avrebbero composto in futuro l’arco costituzionale nel nome dell’unità antifascista, posero sì, da subito, la questione istituzionale, ma ebbero la lungimiranza e la saggezza di demandarne la soluzione alla fine della guerra. Di più. La soluzione individuata era una soluzione pacifica, cioè una soluzione democratica. E, per la prima volta, la democrazia venne intesa in senso pieno ed effettivo, tramite l’introduzione di un suffragio davvero universale, aperto cioè anche alle donne (non poterono però votare i nostri concittadini all’estero e coloro che si trovavano ancora nei vari campi di prigionia). Si tratta di un dato su cui forse non si è mai riflettuto abbastanza, se solo si pensa che, per circoscrivere il discorso ai casi più eclatanti, la Rivoluzione Francese e la Dichiarazione di Indipendenza Americana rappresentano atti pur sempre violenti di rottura, più o meno improvvisa, di un precedente sistema istituzionale.
Vale la pena poi di ricordare che, unitamente al referendum istituzionale, il popolo italiano venne chiamato a eleggere l’assemblea costituente. Il momento fondativo, dunque, si muoveva su due cardini, necessariamente collegati: i) la scelta della forma istituzionale di Stato (una scelta peraltro binaria: monarchia o repubblica, tertium non datur); ii) la elaborazione di una Costituzione scritta (e rigida) da parte di un’assemblea che tenesse conto dell’esito del referendum. Contribuì infine alla transizione “morbida” anche la scelta del sovrano deposto di recarsi in esilio volontario all’estero, non prima di aver reiterato il proprio appello alla responsabilità di tutti i cittadini nel voler rispettare l’esito delle urne e nel desistere da iniziative che avrebbero potuto innescare una nuova guerra civile.
La Repubblica Italiana è insomma sì figlia della guerra ma, a ben vedere, si è formata non sul campo di battaglia, ma nelle urne e nelle assemblee, non con le baionette, ma con le schede elettorali.
L’Italia è fra i pochi Paesi al mondo che abbia gestito in modo autenticamente democratico e sostanzialmente pacifico un delicatissimo passaggio istituzionale.
Può ben dirsi infatti che, se per convenzione fissiamo nel 2 giugno la sua data di celebrazione, deve pure osservarsi che, in effetti, il processo di nascita della nostra Repubblica si completa solo il 1 gennaio 1948, quando entra in vigore la Costituzione.
Non si dà la Repubblica senza la Costituzione e viceversa. L’art. 139 della Costituzione fissa appunto questo precetto che si configura come ultimo presidio: la forma Repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.
Ma Costituzione e Repubblica sono un saldate in un unicum che non è solo giuridico –formale; esso, piuttosto, è oramai espressione di un valore che si è non solo affermato, ma consolidato nel tempo, vissuto nel divenire quotidiano della nostra società, pur nei suoi drammi e nei suoi momenti più bui. Diversamente, l’art. 139 Cost. sarebbe rimasto un vuoto guscio che non avrebbe potuto, né potrebbe spiegare in futuro alcun effetto.
E allora, se la Repubblica è nata nelle cabine elettorali più che sui campi di battaglia, è dunque un paradosso che le celebrazioni del 2 giugno siano affidate alle parate militari, ai riti dell’omaggio al Milite Ignoto, allo sfoggio delle sciabole? Vi è forse bisogno di rammentare con simile clamore il ruolo che le armi hanno avuto e hanno nella genesi e nella vita della Repubblica? In realtà non è mancato (e non manca) chi abbia messo in guardia da certe forme più o meno roboanti di retorica militaristica.
Ma il monito, ancorché da non dimenticare, non ha ragion d’essere. E’ appena il caso di ripetere che un Paese privo di virtù militari, rettamente intese, non può avere virtù civili.
Le bandiere e le uniformi, a ben vedere, sono simboli. Un simbolo (dal Greco sin-ballo, “metto con”, “metto insieme”) è ciò che unisce.
E il nostro Paese ha bisogno più che mai di ritrovare le ragioni della sua unità, di fondarsi e di rifondarsi non solo il 2 giugno, ma ogni giorno, in tutte le pieghe della sua attività.
Le occasioni non mancano: la democrazia e la forma di governo repubblicano sono per loro intrinseca natura predisposte a chiamare chiunque allo svolgimento di queste attività e di questi compiti.
Non contano il censo, né la nascita ma, a ben vedere, la buona volontà di noi che abbiamo voluto liberamente dirci non sudditi, ma cittadini.
E, dunque, viva la Repubblica, viva l’Italia!