di Paolo Balduzzi

Il 13 febbraio è nato, tra grandissime aspettative, il Governo Draghi. Si tratta del 67esimo esecutivo in 73 anni di Repubblica, il terzo in tre anni di questa XVIII legislatura. Tali aspettative si devono principalmente alle enormi personalità ed esperienza del Primo ministro, ex governatore della Banca d’Italia ed ex Presidente della Banca centrale europea (Bce).

Insieme ad un curriculum accademico e lavorativo di primo livello, questi due incarichi ne possono certificare sia le capacità tecniche sia quelle politiche. Soprattutto queste ultime si sono rivelate cruciali durante la crisi dell’euro, dieci anni fa, quando proprio il ruolo della Bce è stato ben più determinante di quello della Commissione per tenere insieme il progetto europeo.

Qualche malumore, a dire il vero, è comunque cominciato a emergere la sera di venerdì 12 febbraio, quando il presidente incaricato ha sciolto la riserva e ha comunicato i nomi dei nuovi ministri. Poche donne (8 su 23), troppi politici (e sempre gli stessi), correnti non rappresentate, pochi ministri del sud.

Si tornerà su queste polemiche. Ma prima è importante capire perché le aspettative sono importanti. Ce lo spiega proprio quella teoria economica, in particolare di economia monetaria, che Draghi conosce benissimo: le aspettative influenzano, nel bene e nel male, le decisioni economiche. Una prova (o, per i più scettici, un semplice indizio) di ciò è la reazione delle borse e in particolare dei mercati finanziari a seguito dell’incarico ricevuto dalle mani di Sergio Mattarella: una discesa continua dello spread, durante la più strana e inaspettata delle crisi di governo, nel bel mezzo di una crisi economica e sanitaria e nell’anno di ulteriore esplosione del debito pubblico (tutti segnali negativi), può essere ricondotta solo alla reputazione dell’ex presidente della Bce. Sulla base, dunque, di queste aspettative e della larghissima fiducia che, numeri alla mano, il governo dovrebbe ottenere alle Camere, Il nuovo esecutivo dovrà affrontare nelle prossime settimane le sfide per cui è stato nominato. Innanzitutto, consegnare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e finalizzare il piano vaccinale. Questa prima fase dovrebbe durare             qualche mese e, tutto sommato, non incontrare particolari problematicità. Più difficile sarà la fase due: quella delle riforme che da anni servono al paese e che, almeno formalmente, costituiscono delle condizionalità per ottenere i fondi europei: riforma della burocrazia, transizione ecologica e riforma della giustizia, senza dimenticare riforma del fisco e delle pensioni. Naturalmente, ci aspetteremmo anche interventi rivoluzionari anche in campo educativo (valutazione dell’insegnamento, diffusione della banda larga, investimenti in edilizia scolastica) e infrastrutturale. Ma il tempo a disposizione dell’esecutivo è limitato ed è ancora tutto da dimostrare che il governo Draghi potrà rimanere in carica fino alla scadenza naturale della legislatura. Una maggioranza così variegata e fortemente condizionata da due tra le forze politiche ancora considerate tra le più “anti” sistema (Lega e Movimento 5 stelle) difficilmente resisterà all’onda d’urto di una vera stagione riformatrice. Del resto, come sopra anticipato, qualche timido scricchiolio si è già sentito alla sola nomina dei ministri o alla prima decisione del governo stesso (il rinvio dell’apertura degli impianti da sci). Il governo sarebbe colpevole soprattutto di avere una componente femminile troppo limitata. Di chi sia la responsabilità francamente, è difficile dirlo. Da un lato, tutti ringraziano Draghi per aver scelto in competa autonomia i suoi ministri; in questo caso, è proprio a Draghi che bisognerebbe rimproverare lo squilibrio. Dall’altro lato, però, sono le segreterie dei partiti ad essere sotto assedio per non aver segnalato donne. Difficile dire dove sia la verità. Vale solo la pena di ricordare che, ancora una volta, trova grande spazio il tema della parità femminile ma quasi nessuno quello dell’equità generazionale (qualcuno si è chiesto quanti anni ha il ministro più giovane? O quanti ministri hanno meno di 40 anni? Per i curiosi, le risposte sono 35 e due, rispettivamente). E prima o poi andrà affrontato, soprattutto a sinistra, il tema di che cosa sia davvero la parità di genere: se solo una questione di numero o se soprattutto una questione di sostanza. A patto, ovviamente, che la risposta non cambi a seconda della convenienza del momento. Più equilibrate le nomine dei ministri cosiddetti tecnici - o formalmente indipendenti - tra cui spiccano quelle di Marta Cartabia, Patrizio Bianchi, Daniele Franco, Vittorio Colao e Roberto Cingolani. Sarà in particolare dagli ultimi tre ministri che dovrebbero passare gli interventi più importanti dei prossimi mesi. Vale infatti la pena di ricordare che la cosiddetta “transizione ecologica” era già il fulcro del piano pluriennale europeo (il cosiddetto “green new deal”) varato dalla Commissione al suo insediamento. Ben prima, quindi, che la pandemia ci obbligasse a fare i conti con la necessità di limitare gli spostamenti e di aumentare gli spazi tra le persone. Non essendoci particolari vincoli di bilancio, grazie alla sospensione del patto di stabilità europeo e alla disponibilità dei fondi europei, fra i tre sarà forse più rilevante proprio il rinominato ministero dell’ambiente. Che, in un mondo ideale, sarebbe stato utile unire a quello dello sviluppo economico. Sarà il tempo a dirci quanto potrà durare la luna di miele, del parlamento e del paese, con il nuovo governo. E se le aspettative saranno realizzate oppure se, ancora una volta, resteremo delusi.

15-02-2021
Autore: Paolo Balduzzi
Docente di Economia pubblica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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