di Maurizio Gentilini
Nel 1974 Enzo Forcella, nel suo fortunato libro "Celebrazione di un Trentennio" dedicato all’analisi della vita politica italiana nei tre decenni precedenti, riservava un significativo spazio alla descrizione formale e iconografica del monumento ad Alcide De Gasperi eretto nel 1956 a Trento. Forcella - una delle firme più lucide e libere del giornalismo italiano del dopoguerra (scrisse per La Stampa, Il Giorno, Repubblica, diresse Radio RAI) - identificava nel complesso monumentale presso i giardini di piazza Venezia, commissionato all'artista toscano Antonio Berti dalla DC nazionale guidata da Amintore Fanfani e inaugurato in occasione del congresso del partito celebrato a Trento, un esempio non proprio esemplare di art officiel. Lo descrisse come “incredibile affastellamento di cascami stilistici e intenzioni allegoriche”, frutto di eccesso di retorica celebrativa, sideralmente lontana dall’austera sobrietà del carattere del personaggio che il monumento rappresentava. Una riflessione non banale, che può aiutare ad interrogarsi sull’attualità dell’esempio e del messaggio degasperiano applicato all’oggi, al modo di intendere la politica e l’amministrazione della cosa pubblica, alla possibilità di arginarne certe degenerazioni. Dal pensiero e dall’azione dello statista, ripercorsi senza retorica e intenti apologetici, si possono dedurre insegnamenti validissimi per il presente, ma tanto esigenti da impegnare i possibili interpreti a scelte severe e comportamenti coerenti. Le discussioni su dove De Gasperi rivolgesse il proprio sguardo – se più a destra o più a sinistra – rispetto alla propria collocazione centrista risultano oggi sterili e figlie di un tempo e di un lessico ormai superato dalla storia.
Il cambio d’epoca e di paradigmi interpretativi della realtà che stiamo vivendo ci rammentano la necessità di valutare ed affrontare le situazioni e i problemi sociali con realismo, usando approcci, modelli e linguaggi meno astratti e ideologici, più ancorati alle situazioni e ai bisogni dell’uomo, con un metodo induttivo che muova da quello che Romano Guardini chiamava il “concreto vivente”. A proposito del vivere civile si stanno imponendo nuovi alfabeti: ad esempio, una espressione nuova come “distanziamento sociale” sarà sempre più da interpretare come lo spazio intercorrente tra ricchi e poveri, tra chi ha tutele e chi no, tra chi è rappresentato e difeso, e chi viene abbandonato a sé stesso.
La crisi conseguente alla pandemia (e le altre che si prospettano) ci imporrà la necessità e ci offrirà l’occasione di una “ricostruzione” (temine molto legato alla figura di De Gasperi), che obbligherà a stare in effettivo contatto con la realtà e a riconsiderare parole chiave come “persona” e “comunità”. Parole da declinare in progetti che dovranno confrontarsi con la nuova condizione del mondo e di tutte le comunità, molto più imprevedibile, più libera e al contempo più sottoposta a mille condizionamenti che noi non siamo in grado di dominare e neppure di prevedere.
Se vi è un elemento da recuperare dell’insegnamento degasperiano, questo è il riconoscere nel bene comune il principio di orientamento fondamentale dell’agire politico e amministrativo, e il rifiuto di logiche prigioniere di particolarismi, che rendono impossibile individuare mete condivise e che inducono alla tentazione della pura occupazione del potere, della protesta sterile, del disimpegno e del qualunquismo. Un antidoto contro i populismi di varia matrice che oggi imperversano in ogni spazio del pubblico confronto, fino alle aule parlamentari. Quindi, “liberi” nella coscienza, necessaria a mettesi in gioco oltre il calcolo personale, e “forti” nella fedeltà alle proprie scelte e di fronte a ogni ostacolo. Tanto a livello centrale che locale, nel costume politico e nelle istituzioni, assistiamo al progressivo venir meno del senso della distinzione dei poteri, efficace garanzia di libertà e democrazia, all’indebolimento dei sistemi di contrappesi, ed allo smarrimento del significato e dei ruoli di controllore e di controllato. Le istituzioni sono spesso confuse con la persona del leader che le governa ed eccessivo l’accentramento del potere negli esecutivi a sfavore delle assemblee elettive, con la rottura dei delicati equilibri delle regole della rappresentanza e confusione tra i concetti di democrazia rappresentativa e diretta. Per De Gasperi, la distinzione dei poteri significava soprattutto limitazione di ciascuno di essi, e garanzia del loro ruolo di servizio alla comunità.
Anche in questo senso l’esempio degasperiano dovrebbe stimolare alla ricerca di nuove modalità di selezione della classe dirigente: con regole che impediscano che questa si trasformi in “casta”; evitando ambigue contiguità tra classe politica, funzionari pubblici e amministrazione; limitando i meccanismi che generano e regolano i privilegi ed i vantaggi di chi è al potere, le retribuzioni degli amministratori e di coloro a cui sono affidate nomine politiche, al fine che la convenienza non prenda un facile sopravvento sulla coerenza.
Bello sarebbe chiedere a chi, nella politica, nell’amministrazione e nella cultura, afferma di rifarsi a De Gasperi, un impegno a ricalcare il suo esempio anche sul piano dei comportamenti e sulla consapevolezza delle sfide che vanno affrontate. Le celebrazioni ferragostane in occasione dell'anniversario della morte dello statista dovrebbero servire anche a porsi questo tipo di domande...