di Vincenzo Mascellaro
Di primo acchito qualcuno si chiederà cosa hanno in comune i tre temi, molto lontani tra loro. La verità è che a questi se ne potrebbero aggiungere tanti altri, anch’essi apparentemente distanti: gli incidenti sulle strade, i disastri da terremoti, solo per citarne qualcuno.
Ma torniamo al comune denominatore che unisce i primi tre. Il fatto che se ne parli una settimana, forse due, neppure tre, a ridosso degli eventi così per fare notizia, o che si invochino leggi più stringenti e controlli più severi, per dimenticarcene poi quasi subito nel breve. Per ricominciare poi col solito mantra al prossimo evento.
Sul secondo e terzo tema ho molto poco da dire, posso soffermarmi su quello che raccontano le cronache. Sul dissesto idrogeologico, vado a memoria, quando Longarone fu rasa al suolo (1963, disastro del Vajont) furono pronunciate parole di circostanza, le stesse che quasi sessant’anni più tardi abbiamo ascoltato in occasione del recente disastro di Ischia. Nel mezzo quanti altri eventi drammatici, tanti, troppi. E le parole? Le stesse. Quanto agli incidenti sul lavoro, si stima che nel nostro Paese da gennaio a settembre dell’anno appena trascorso siano morte 677 persone, circa tre vittime al giorno.
Nel 2007 ci fu il grave incidente della Tyssen-Krupp a Torino che tutti ricordiamo, purtroppo, più per le modalità che per le sette vittime. Quel giorno segnò il grande cambiamento, la sicurezza negli ambienti di lavoro avrebbe avuto la priorità su tutto: “non sarà più così”, le solite parole di circostanza. I numeri dei primi nove mesi del 2022, quindici anni dopo quel grave lutto, non sembrano voler rappresentare un segnale positivo.
Ma perché si reiterano eventi sui quali si spendono ogni volta e inutilmente fiumi di parole senza che possa vedersi la luce in fondo al tunnel? Per assenza di norme o per l’impossibilità e incapacità di applicare quelle esistenti? Per il tema della lobby qualche regola ci starebbe bene, solo qualcuna però. Per gli altri ci vorrebbero maggiori controlli e meno lassismo da parte di chi le leggi dovrebbe applicarle. Perché le leggi ci sono. E anche una giustizia più rapida per evitare le prescrizioni.
Ma veniamo al tema della lobby, tornato quasi di diritto sulle pagine dei giornali e in tv, perché legato al caso che i media hanno inteso chiamare Qatargate. Fortunatamente le vere attività lobbistiche, non i fenomeni corruttivi spacciati per lobbying, non causano vittime, e questo è di per sé un fatto positivo e poi, su queste, mi sento sicuro di potermi esprimere, non fosse altro per occuparmi di lobby da circa quarant’anni. Era dal 1992 che non se ne parlava in maniera così intensa e a tratti, mi riferisco sempre alla cronaca recente, anche comica per non dire surreale (la risorsa del “a mia insaputa” pare tentazione ricorrente...).
Grazie al mio privilegiato osservatorio di uomo d’Azienda o, per chi mi conosce, ex, solamente se si vive all’interno di un’Organizzazione che fa impresa si può comprendere il diritto/dovere professionale di gestire relazioni con le Istituzioni o con il mondo della politica. Le imprese devono poter esprimere le loro preoccupazioni in ordine a decisioni che potrebbero compromettere non solo il settore produttivo di un’azienda, ma di tutto l’intero comparto che essa rappresenta, o anche il loro favore a misure motivatamente ritenute di interesse non solo strettamente aziendale, ma anche collettivo, come quelle che derivano da innovazioni tecnologiche o di prodotto. Le Istituzioni, dal canto loro, è bene che ascoltino la voce di chi produce perché, quasi sempre, il privato arriva per primo alla soluzione dei problemi. Il che non vuol dire che il potere pubblico debba ridursi a cinghia di trasmissione dei privati, ma vuol dire accettare una dialettica pubblico-privato per giungere a decisioni finali massimamente informate e valutate.
“La consultazione … ha origine dalla complessità delle società contemporanee nelle quali si è spezzato, insieme con il monopolio normativo, anche il monopolio conoscitivo pubblico, donde la necessità della politica di approvvigionarsi di conoscenze di cui spesso non dispone … ancor più da quando la crisi della fine degli anni Ottanta del secolo scorso ha sradicato gran parte del sistema dei partiti”. (Carlo Pappagallo, in “Politica e Potere. L’Italia delle Lobby”, ed. Minerva, p. 18).
Il Parlamento italiano, con lo strumento delle audizioni ha sì dato un segnale di apertura anche alle imprese private, ma dal momento che queste avvengono per lo più dinanzi a un comitato ristretto e sono prive di verbalizzazione, tranne che nelle indagini conoscitive o nelle inchieste, che peraltro hanno carattere meno direttamente e immediatamente legato ai provvedimenti legislativi in esame (ben altra cosa le audizioni di soggetti pubblici, come la Banca d'Italia o le Autorità indipendenti, dotati in proprio di grande rilevanza esterna), va da sé che quelle audizioni lascino il tempo che trovano. La conclusione – afferma Pappagallo – è che, nella misura in cui il pubblico rispetti la parità di trattamento fra gli stakeholkders, “ogni incontro sollecitato dal pubblico potere verso gli interessi è ritenuto accettabile; la direzione inversa appare problematica”.
Sembra quasi che si sia voluto dare un contentino ai Rappresentanti di Interessi, così come l’istituzione del Registro dei lobbisti predisposto dall’Organo legislativo. Appunto, solo un elenco di nomi, cognomi e interesse rappresentato, che non riconosce all’iscritto la certezza di essere ricevuto da colei o colui al quale è indirizzata la richiesta di incontro. E allora, come si fa per incontrare un decisore per le vie normali? Non esiste una via trasparente, e si ricorre quindi al metodo storico dell’amico o amico dell’amico.
Val la pena però fare anche un po’ di storia della Lobby: nasce negli USA oltre cent’anni fa, e viene fatta oggetto di una disciplina legislativa nel 1946. Nel nostro Paese, il fenomeno cominciò a diffondersi con l’avvento della Repubblica. I primi soggetti portatori di interessi particolari furono costituiti da organizzazioni con finalità non necessariamente economiche. Il primo gruppo di pressione in Italia, incredibile solo a pensarlo, fu rappresentato dalle ACLI, Associazione con finalità sociali nata nel 1945. In quell’anno nacque Confcommercio, ma già da molto prima operavano Confindustria, ABI e tante altre Associazioni di categoria, nonché gli stessi partiti politici. Si cominciò a parlare di lobby delle imprese private negli anni ’60 con l’arrivo nel nostro Paese delle multinazionali americane e, a partire dalla fine degli anni ’70, cominciarono a fiorire i primi provvedimenti di legge volti al riconoscimento giuridico della professione di lobbista e all’istituzione di un elenco o di un albo, mai arrivati ad approvazione per mancanza della volontà politica (ad oggi, vado a memoria, non siamo lontani dal numero cento).
Forte della mia esperienza, un’ulteriore riflessione che peraltro mi sento di fare è che le Istituzioni centrali in Italia, sui cui processi era stato sicuramente più facile incidere sino alla metà degli anni novanta, si sono trovate compresse fra la produzione normativa dell’UE e quella delle Regioni. Oggi il Parlamento e il Governo centrale producono pochissime norme rispetto a un passato in cui non si contavano le “leggi di spesa” di iniziativa parlamentare, per il fatto di essere davvero tante. L’attenzione si è spostata pertanto verso l’alto, a Bruxelles, e nei confronti degli organi regionali. Senza trascurare l’attività di normazione secondaria, decreti delegati, regolamenti, decreti ministeriali e simili, molto invitanti per i portatori di interessi e non dotati del medesimo grado di trasparenza procedimentale.
Qualche suggerimento per rimediare alle distorsioni maturate nella pubblica opinione sulla Lobby e attività connesse? Intanto separare la figura del lobbista da quella del faccendiere (quest’ultimo è sempre esistito laddove si muovono risorse economiche o c’è odore di potere). E poi non importa quale possa essere il provvedimento più efficace, una legge o un regolamento o quello che è. L’importante è che vi sia una maggiore trasparenza delle attività di ambo le parti (lobbista e “lobbato”) così da rendere pubblico chi incontra chi, rendere pubbliche le riunioni dei comitati ristretti e relative audizioni (oggi dette informali), vietare per almeno tre anni dalla cessazione delle precedenti attività l’esercizio della lobby in tutte le sue declinazioni (Lobby, Public Affair e Regulatory Affair) a ex parlamentari e ex funzionari pubblici e anche giornalisti parlamentari in attività. Solo poche parole: No a posizioni dominanti, così da porre tutti in condizioni di parità di accesso al decisore pubblico. Forse è solo un primo passo, provarci non costa. Altrimenti finiremo per annoverare la lobby fra gli illeciti del codice penale.