di Luigi Giorgi
Molto si è indugiato nel dipingere la figura di Ciriaco De Mita, scomparso pochi giorni fa, come politico di professione, espressione più pura della riflessione democristiana, intesa a volte nel senso della mediazione, del compromesso, della necessità di attutire spigoli e asprezze del reale. Oltreché come l’epigono della prima repubblica
Questa serie di fattori ha senz’altro colto un aspetto importante della vicenda del politico irpino. Che ha contrassegnato sia con la sua azione che con la sua riflessione una parte importante della storia della repubblica.
De Mita ha sempre rivendicato il ruolo del pensiero cattolico democratico, individuando in esso un potenziale riformatore nella capacità di leggere, e intervenire, sulla società in mutamento. E allo stesso tempo ha creduto, per convinzione ed esperienza, che il partito nella sua forma organizzata, in grado di dare rappresentanza e rappresentatività al territorio, nell’ambito dello Stato, avesse un ruolo basilare nel guidare i processi sociali, economici e politici.
Ma se De Mita è stato senza dubbio uomo di partito, e lo è stato fino in fondo, non meno è stato un intellettuale della politica non nel senso di un filosofare vano e fumoso, ma nella capacità di analizzare, interrogare e cercare soluzioni rispetto a problemi politici, economici e sociali.
Emblematico forse il discorso al Congresso Dc del maggio 1982, che lo vide eletto segretario nazionale dello scudo crociato, nel quale egli toccava diversi punti rispetto alla necessità di un rinnovamento democristiano che nascesse dall’analisi della società e delle istituzioni. In grado di riformare assetti politici e statuali nel tentativo di governare una modernizzazione che sempre più sfuggiva ai radar dei partiti (e democristiani) e che incrociava l’attivismo craxiano e socialista, nel quadro di una progressiva perdita di centralità della Dc.
Il discorso del 1982 aiuta a decifrare, per grosse linee, senza pretese di esaustività generalizzanti di una vicenda politica così complessa, una parte della mappa concettuale del pensiero demitiano. Nel difficile contesto di un decennio che si apriva all’insegna del cosiddetto riflusso nel privato, rispetto all’impegno pubblico pervasivo nel periodo precedente, De Mita pensava che non si potessero inseguire, per governare, le emozioni: «confondendo ciò che è vivo, ciò che emerge nella società e le conseguenze che il nuovo crea all’interno della società in termini di emarginazione e chiusura di spazi di libertà».
Riconosceva che il tipo di mediazione che aveva permesso, negli anni passati, il successo della Dc era andato in crisi. Ma credeva che fosse, in qualche misura, ancora valido e recuperabile, seppur con alcuni aggiustamenti. Tutte le culture politiche, anche quella comunista, suggeriva, avevano esaurito il loro ruolo classico, mostrando tutta la difficoltà nel decifrare una realtà in mutazione. Ciò spingeva verso l’esigenza disse: «di un nuovo ordine, di nuove istituzioni; per questo la questione morale non è moralismo, non è la criminalizzazione dell’interesse concorrente, ma è assumere nuove regole che disciplinino i comportamenti politici e ne rendano trasparenti le motivazioni […] Noi abbiamo bisogno di una nuova statualità, di una nuova organizzazione dello Stato e delle istituzioni».
Ragionare sulle istituzioni significava anche fornire risposte in termini di cultura politica: «il discorso sulle istituzioni - dichiarò - significa abbandono della illusione ideologica, della progettualità del modello sociale; significa accettazione della realtà con le contraddizioni che essa ha, senza mai la pretesa di fissare i rapporti all’interno della società in un ordine immutabile e fisso anche se alto, avendo la consapevolezza che la storia cresce, e cresce la libertà e che la politica ha un solo dovere, quello di garantire la condizioni per cui lo sviluppo civile passi attraverso la garanzia delle libertà».
Accettare la realtà, nella sua dinamicità, e più ancora nella sua contraddittorietà (secondo la visione demitiana) voleva dire applicare un metodo di libertà, come patrimonio fondamentale del cattolicesimo democratico e del pensiero democristiano. Una riflessione in cui si potevano intravedere i riflessi di decenni di pensiero cattolico, da Sturzo a Moro.
Questo ragionamento si apriva alla questione del governo e della competizione, che di fatto veniva delineata, con il Partito socialista: «Il Partito socialista deve abituarsi, e presto, - affermò - a trattare con la Democrazia Cristiana non come un partito in svendita, con un partito moderato: noi siamo un partito popolare e democratico. Non siamo carichi solo di antichi affanni e di tanti vizi: noi siamo e dobbiamo rimanere una forza centrale nell’equilibrio democratico». In tale quadro si aveva bisogno di un partito nuovo, che permettesse l’evoluzione di tutti gli interessi vivi del paese, almeno quelli che egli riteneva tali, nella creazione di nuovi equilibri. De Mita non voleva, come ha ricordato Agostino Giovagnoli, che la Dc fosse spinta, nel confronto con il socialismo craxiano, nell’angolo di una forza conservatrice (cfr. A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani 1946-2016, Roma - Bari 2016, p. 137).
Non tutto riuscì, sia nella stagione di partito che in quella di governo. Su quest’ultima fase Pietro Scoppola scrisse che si poteva tracciare un bilancio non del tutto negativo, tranne che sul tema istituzionale (cfr. P. Scoppola, La Repubblica dei partiti, Bologna 1997, p. 452).
Molte volte nella descrizione di quella stagione si indugia, nella stampa soprattutto, nel delineare un quadro di “onnipotenza” della politica e dei politici della cosiddetta Prima repubblica, mentre c’erano limiti e difficoltà palesi (non solo politico-partitiche), pur fra pregi e conquiste democratiche troppo spesso dimenticate o sottovalutate. Disse Moro a Scalfari, intervistato per “l’Espresso” nel 1965: «La gente pensa che noi abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto e per di più impunemente. Una parola del presidente del Consiglio, una firma d’un ministro e tutto è risolto, qualunque affare lecito o illecito può diventare realtà. Come se disponessimo di una bacchetta magica e potessimo usarla come pare» (in G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna 2016, p. 200)
Ciriaco De Mita è stato forse uno degli ultimi intellettuali della politica, nella fierezza della sua parte (sempre rivendicata). Ha praticato, e soprattutto pensato, le relazioni sociali e politiche nel tentativo di individuarne, nell’ambito del potere democristiano e del governo, connessioni e risposte alla modernità, al riflusso, all’affacciarsi di una società dei consumi che individualizzava la persona, e svuotata la comunità dal di dentro facendola solo un contenitore di singoli. Ha immaginato percorsi di riforma per il proprio partito, per il proprio campo di pensiero e di valori, ipotizzando che ciò potesse essere tenuto insieme da una più complessiva riforma delle istituzioni (con il contributo decisivo di Roberto Ruffilli barbaramente assassinato dai terroristi delle Brigate rosse).
Vi furono limiti, errori e pregi, che si diluirono, in qualche modo, in una stagione difficile, per una serie di aspetti economici, sociali, politici. Resta comunque un patrimonio di riflessioni con cui confrontarsi ineludibilmente per comprendere non solo quanto accadde, ma anche la contemporaneità che ci troviamo a vivere.