In questi giorni ricorre l’anniversario del rapimento e successivo assassinio del Presidente Aldo Moro. Vogliamo contribuire a far conoscere la sua figura attraverso un contributo di uno studioso di Moro, il Prof. Sirimarco, per comprendere meglio l’uomo e il politico che ha dato tanto all’Italia.

Brevi note sul periodo formativo di Aldo Moro

di Mario Sirimarco

Il tema della formazione giovanile di Aldo Moro, delle matrici culturali e filosofiche del suo pensiero, è tema ampiamente dibattuto ma estremamente complesso e delicato perché vi confluiscono una serie di questioni abbastanza controverse sul piano della ricerca storica e filosofica, alcune delle quali spesso strumentalmente agitate a scopo di mera propaganda.  

La prima considerazione da fare si collega in realtà ad un tema più generale che è quello del rapporto dell’intellettuale col fascismo e più in particolare dell’intellettuale cattolico col regime, che poi riguarda anche il problema del rapporto col neoidealismo quindi, ancor più specificamente, del rapporto del filosofo del diritto con un sistema filosofico che, se da un parte, offre una definizione del fenomeno giuridico come attività, capace di superare positivismo e formalismo, dall’altro priva di autonomia il diritto riconducendolo e riducendolo alla economia in Croce o alla politica in Gentile.

Ogni tanto riaffiora la polemica sulla partecipazione di Moro ai Littoriali del fascismo che negli anni Sessanta del secolo passato fu un cavallo di battaglia del MSI e che riaffiora di tanto in tanto per screditare la figura di Moro. Ma fu una polemica molto violenta anche all’interno dei cattolici perché, ricordo, i vecchi popolari guardarono sempre con sospetto i giovani cresciuti durante il fascismo (e l’adesione di Moro nella Dc a Bari fu ostacolata per questi mortivi).

Si tratta di un tema che necessita quindi di qualche puntualizzazione, non in prospettiva agiografica, ma per contribuire a meglio ricostruire lo scenario storico-politico e filosofico nel quale si colloca la presenza dei cattolici perché, è stato detto giustamente, “la formazione del giovane Moro appare emblematica della diversa congerie culturale in cui ebbe a formarsi tutta una generazione cresciuta nel ventennio e soprattutto particolarmente indicativa delle grandi trasformazioni subite dal movimento cattolico durante il fascismo” (Renato Moro).  

Se tutto ciò è vero, è indispensabile, allora, cogliere alcuni dei momenti salienti di quello che fu un grande travaglio culturale, non tanto legato al tema dell’antifascismo, filofascismo, profascismo o afascismo dei cattolici (poiché esso riguardava in realtà tutti), ma che partiva da una riflessione ancora più radicale che toccava in definitiva il problema, teoretico e pratico insieme, del rapporto tra cristianesimo e modernità, tra Chiesa e mondo moderno. Gran parte del dibattito che, direi della Rerum Novarum in poi per rimanere nell’ambito sociale, ha come oggetto l’etica sociale cattolica si articola attorno a questo problema dividendo da allora i cattolici sulla polarità di moderno/antimoderno. 

Questa prospettiva è stata individuata, con il solito acume, da Augusto Del Noce (filosofo di straordinaria, ma forse poco riconosciuta, importanza) per il quale “i termini di fascismo e di antifascismo sono inadeguati per intendere sia la posizione ufficiale della Chiesa sia lo stato d’animo della generazione giovanile cattolica di quel decennio”. La tesi delnociana merita di essere brevemente ripresa perché mi sembra di grande aiuto per ricostruire le coordinate teoretiche e politiche in cui i giovani cattolici si muovevano negli anni Trenta del secolo passato (ricordo che all’avvento del fascismo al potere Moro ha 6 anni). 

Per cogliere adeguatamente la problematicità del rapporto cattolici-fascismo occorre considerare un’ambiguità di fondo che sembrava essenziale al fascismo: era il regime che, da un lato, aveva stipulato i Patti Lateranensi con l’accettazione della dottrina cristiana ricevuta dalla tradizione cattolica, dall’altro, non mancava di richiamare la sua anima originaria e le origini culturali di molti tra i suoi maggiori esponenti, Mussolini in primis, legati ai movimenti più dichiaratamente anticattolici. Questa ambiguità può aiutare a spiegare perché tra i giovani cattolici, scrive Del Noce, “è difficile trovare, tra coloro almeno che seguirono la linea politico-religiosa di Pio XI, così dei cattolici il cui consenso al fascismo fosse integrale, come dei cattolici che vivessero un atteggiamento di opposizione radicale. Certamente ce ne furono, così degli uni come degli altri, ma in numero relativamente esiguo”.  E lo stesso Del Noce matura l’adesione all’antifascismo con la lettura di Maritain, un filosofo che ha avuto il merito di aver riscoperto il tomismo non solo dal punto di vista teoretico, ma di averlo riproposto come strumento culturale per mettere in evidenza e denunciare i limiti del pensiero moderno, in particolare il suo immanentismo, la negazione della trascendenza, la sua deriva nichilistica (da qui il carattere “antimoderno” del personalismo di Maritain); ma nello stesso tempo la lettura di San Tommaso porta ad una visione “aperta” del suo sistema filosofico per essere in grado di cogliere gli aspetti positivi della modernità non necessariamente confliggenti col cristianesimo (da qui il suo definirsi “ultramoderno”). 

Del Noce vede in Umanesimo integrale, tradotto in italiano nel 1936, “la critica definitiva del profascismo cattolico, che non ha avvertito come il fascismo rappresenti la forma ultima, irrazionalistica, della reazione della borghesia, coinvolgente tutte le forme reazionarie”. Ma non tutti nell’arcipelago cattolico hanno ancora letto Maritain e l’atteggiamento di diffidente, a volte opportunistica, prudenza continua a dominare e tra giovani cattolici e giovani fascisti la reciproca diffidenza diciamo che era molto diffusa, come la storiografia più seria ha ampiamente documentato.  

In definitiva, il Fascismo viene visto, almeno da una parte dei cattolici, come lo strumento filosofico e politico per una universale restaurazione cattolica, antimoderna e teocratica, di contro alla interpretazione teoretica della modernità come processo verso il nichilismo e di contro al liberalismo e al socialismo considerati, sul piano politico, le tappe di un processo storico di decomposizione iniziato con la modernità. La nascita nel primo dopoguerra di movimenti che si proponevano gli stessi avversari storici della chiesa cattolica, il liberalismo e il socialismo porta i cattolici a considerarli certamente “come fenomeno di crisi, espressioni in primo luogo di una dissoluzione, col conseguente loro aspetto irrazionalista” con la convinzione, però, “che dal momento negativo non potessero passare al positivo, se non incontrando il pensiero politico cattolico e organizzando le loro realizzazioni politiche in modo conforme ad esso”. Se, come pensa ancora Del Noce, è ingiustificato sostenere la nascita di un fascismo cattolico, e se forse neppure di vero e proprio “idillio” si può parlare, certo che l’illusione di una possibile convergenza “durò sino al momento in cui il carattere anticristiano del nazismo si rivelò appieno“, prendendo la guida europea dei movimenti e facendo sì che l‘evoluzione del fascismo avvenisse in una altra direzione: “la sua subordinazione al nazismo, il razzismo, la seconda guerra mondiale e la Resistenza segnarono la fine di questa illusione”.  

Ma pur sempre di illusione si era trattato … perché alla base del pensiero che il fascismo potesse essere utilizzato per una restaurazione cattolica in senso antimoderno c’era un errore di fondo, cioè “ritenere che il fascismo fosse una pura forza, come tale riducibile a strumento; e nel non riflettere sul fatto che in essa vi era una filosofia implicita” che Del Noce ha sintetizza nella densa ma problematica espressione “galvanizzare rivoluzionariamente il marxismo attraverso Nietzsche” (o meglio, preciserei, attraverso la lettura di Nietzsche che si faceva nel primo Novecento). Il fascismo, in altri termini, “fondato da chi aveva accostato Nietzsche come maestro d’azione”, non può non cogliere il corollario essenziale del suo pensiero e quindi, se “la caduta dell’idea di Dio comporta la caduta dell’idea di verità”, il fascismo non poteva adeguarsi a quel compito archeologico che una certa filosofia della storia gli voleva affidare ma doveva esplicare “la sua funzione etico-pedagogica, nel senso di abolire la disposizione spirituale a pensare in termini di verità”. Ma naturalmente in questa sua funzione pedagogica il fascismo “non poteva affatto servire a un risveglio cattolico”. E quella illusione era destinata a svanire.

A rafforzare questa convergenza di interessi, alimentando quella illusione, contribuirono altri momenti di contatto di natura filosofica. Mi limito ad accennare per esempio al fatto che tra l’individualismo borghese, che antepone i diritti della molteplicità all’esigenza di unità, e l’organicismo fascista, che sacrifica il molteplice in funzione dell’unità, indubbiamente il secondo sembra avvivinarsi, solo in apparenza però come ha dimostrato Chantal Millol Delsol, al principio di sussidiarietà che si andava costruendo, dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo anno, come pilastro della filosofia politica cattolica o a quel concetto di organicità del reale di cui avevano parlato autori, certamente noti negli ambienti della FUCI del tempo e letti dal giovane Moro, come Francesco Olgiati e Giorgio La Pira. 

Moro vive questa difficile condizione in cui si trova una intera generazione di cattolici, restando coerentemente fedele al suo impegno nella FUCI prima e nei laureati cattolici dopo, più attento alle esigenze culturali ed ecclesiali che a istanze di tipo politico. E così si spiega la partecipazione ai Littoriali della cultura su cui invito sempre a rileggere le pagine di un testimone del tempo Ruggero Zangrandi nel suo Il lungo viaggio attraverso il fascismo, testo sempre molto prezioso per ricostruire il travaglio di una generazione che attraversò lo “sciagurato ventennio”, per dirla con Capograssi, e per ricostruire il contesto in cui si svolgevano i Littoriali. E cioè, scrive, “una di quelle manifestazioni nelle quali il fascismo non so se volle o fu costretto a comportarsi con relativa liberalità … in quei dibattiti trovarono riscontro tutte le posizioni che i giovani andavano assumendo di fronte al fascismo e in virtù di queste caratteristiche … poterono intervenire giovani fascisti ortodossi, giovani critici e dissidenti e anche non pochi giovani di sentimenti più o meno decisamente antifascisti i quali andavano anch’essi là, a discutere, per tentare di seminare, di compiere opera di propaganda per le proprie idee, non di rado per svolgere opera di provocazione … l’impronta dei Littoriali fu quella dell’anticonformismo e spesso in determinati convegni  vennero addirittura a formarsi schieramenti  di opposizione quasi palese che i commissari e le autorità avvertirono e  contrastarono e soffocarono”. E lo stesso Zangrandi, che pur criticandone la linea difensiva scelta quando fu attaccato dai missini, ricorda che Moro partecipò ai Littoriali come dirigente della FUCI una delle organizzazioni cattoliche meno ligie al fascismo e, aggiungerei, essere iscritto ad essa se non rappresentava un atto di aperta ostilità al regime significava certamente mettere da parte velleità di carriera politica. Quindi nessun opportunismo o carrierismo in quella partecipazione.

Come è noto nel 1931 era maturata una forte tensione tra Chiesa e fascismo, proprio sul tema delle organizzazioni cattoliche e sulla pretesa del fascismo di controllarle e ricordo che era stata pubblicata la enciclica Non abbiamo bisogno con cui Pio XI reagiva sul piano dottrinale al proposito di monopolizzare interamente la gioventù, a vantaggio esclusivo di un regime e sulla base di una ideologia statolatrica e pagana, in contrasto con i diritti soprannaturali della Chiesa. Contrariamente alla sopra accennata tesi di Del Noce, forse è da questo momento che comincia a maturare un vero antifascismo cattolico, anche se non erano mancate figure di grandi antifascisti cattolici come don Minzoni, Giuseppe Donati, Francesco Luigi Ferrari, don Primo Mazzolari (che fu invitato da Moro presidente della FUCI a scrivere sulla rivista ufficiale Azione Fucina).

Una seconda e ultima considerazione riguarda il tema delle matrici culturali e filosofiche del giovane Moro con particolare riferimento a quella preziosa ma non agevole fonte che è data dalle sue lezioni di filosofie del diritto tenute a Bari nel 1942.

Moro come è noto si era laureato a Bari nella università Benito Mussolini, oggi università Aldo Moro, in diritto penale e aveva pubblicato già una importante monografia La capacità giuridica penale nel 1939 quando ottiene l’affidamento dell’insegnamento di Filosofia del diritto perché la cattedra era rimasta libera.

Dalle lezioni emerge, un Moro estremamente maturo rispetto alla sua età, con un pensiero giuridico politico già formato e una padronanza sorprendente dei temi affrontati, con uno stile naturalmente molto diverso dalle monografie penalistiche di quegli anni. Scrive Bobbio, che è stato tra i primi a cogliere l’importanza di quel testo: “queste lezioni non sono lezioni accademiche nel senso usuale della parola. Sono per molta parte espressione di un pathos etico-religioso che dà ad esse un timbro insolito, e le trasforma in discorsi vibranti e volti non solo a conoscere e a far riflettere ma anche a persuadere, a esortare, a scuotere, a suscitare emozioni e a formare convinzioni”.

La maggior parte delle ricostruzioni del pensiero formativo di Moro mi sembra siano orientate a rintracciare la maggiore fonte di ispirazione nel pensiero personalista in particolare in Mounier e Maritain (ma occorrerebbe fare diverse puntualizzazioni trattandosi di una corrente filosofica che al pari di quella vicina dell’esistenzialismo rischiano di essere contenitori dove trovare un po' di tutto). Certamente non nego a questa influenza (evidente, per esempio, sul tema del rapporto cristianesimo-modernità o sui riferimenti alla persona o ad una visione più relazionale o comunitaria dell’esperienza) che era abbastanza scontata, quasi istituzionale, per gli ambienti fucini e montiniani, anche se credo che questa influenza produca i suoi frutti soprattutto in un periodo successivo dalla Costituente in poi direi, soprattutto quando l’impegno politico attivo diventa preponderante nella sua vita.

In Moro mi sembra altrettanto significativa, restando ferma la originalità del suo pensiero, la presenza, forse data per scontata ma mai realmente approfondita, di Giuseppe Capograssi, una delle figure più importanti della filosofia cattolica del 900 italiano anche se non sempre riconosciute come tale. È grazie a Capograssi (che in quegli anni aveva già pubblicato opere di straordinario livello come Saggio sullo StatoRiflessioni sull’autorità e la sua crisiAnalisi dell’esperienza comuneStudi sull’esperienza giuridica e Il problema della scienza del diritto e altri saggi sulla Rivista internazionale di filosofia del diritto, tutte opere che conservano intatta la loro attualità soprattutto nella prospettiva del superamento del nichilismo filosofico e giuridico) che si compie il superamento dell’idealismo, stante l’impossibilità di correggerne dall’interno il sistema, con la sua filosofia dell’esperienza. E Capograssi rappresentava, sul versante cattolico, la voce più originale nel campo filosofico giuridico anche grazie alla sua capacità di cogliere i fermenti nuovi (fenomenologici, esistenzialistici, ermeneutici) nella filosofia europea e al suo non essere allineato con le posizioni ufficiali che si andavano a istituzionalizzarsi su posizioni antimoderne.

Mi limito a ricordare alcuni punti di possibile convergenza/influenza ma anche possibile complementarità tra Moro e Capograssi.

Il concetto di esperienza giuridica, che è il cuore dell’etica di Capograssi, l’idea cioè che il diritto sia concreta espressione della vita, il diritto come modalità della coesistenza, come esperienza comune degli individui che agiscono e agendo creano vichianamente il mondo umano della storia, sembra presente in Moro che apre le sue le sue lezioni di Filosofia del diritto proprio con le riflessioni sulla vita e sull’esperienza giuridica. Ed è presente, certo con diverse intonazioni, che non è possibile in questa sede ricostruire, ma soprattutto come comune esigenza di utilizzare il concetto di esperienza come approccio non idealistico alla filosofia del diritto.

In Capograssi il diritto non è che un momento della vita etica, il percorso che porta l’individuo a raggiungere la sua individualità e poi a desiderare leopardianamente l’infinito e quindi Dio. In Moro lo stesso: il diritto è espressione della eticità, ponendosi, così come la politica, come momento della vita etica intesa “come il processo attraverso il quale il soggetto realizza la sua vita più vera, ascendendo dal piano della sua particolarità empirica a quello della universalità”. In questo senso lo Stato è etico, anzi è necessariamente etico, non in senso idealistico, come Stato che esprime la eticità in quanto tutto, ma capograssianamente come Stato che, scrive Moro, “accoglie e compone in armonia i valori sviluppati dai singoli e dagli aggregati sociali minori dei quali si compone e senza i quali non sarebbe”, pertanto “la sua dignità è null’altro che la dignità stessa della vita e il suo valore nient’altro che il valore proprio dell’umanità”.

Comune ai due autori l’avversione verso lo stato onnipotente ma allo stesso modo la diffidenza verso visione antistatualistiche, presenti in tanta parte del cattolicesimo politico, latamente sussidiarie o che tendano di ridurre al minimo la presenza dello Stato (in un prossimo articolo riprenderò questo aspetto per alcune precisazioni sul principio della sussidiarietà).

Infine, c’è in Moro come in Capograssi la consapevolezza, direi agostiniana, dell’incompletezza della esperienza giuridica e più in generale della stessa vita etica, il loro non realizzarsi mai completamente, il loro continuo tendere verso un momento successivo più alto …che si completa solo in Dio.

In una delle pagine più belle delle lezioni baresi Moro scrive:

“L’evoluzione storica di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo Stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno … Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è pur sempre un grande destino”.

21-03-2022
Autore: Mario Sirimarco
Docente di Teoria generale del diritto - Università di Teramo
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