di Alfredo Battisti
Il 4 novembre è entrata in vigore la legge costituzionale n.1/2021 recante «Modifica all'articolo 58 della Costituzione, in materia di elettorato per l'elezione del Senato della Repubblica», che ha equiparato l’elettorato attivo per entrambi i rami del Parlamento.
La scarsa attenzione dei canali di informazione nella fase di iter legis ha trovato una lievissima attenuazione in concomitanza delle seconde votazioni (il 9 giugno scorso alla Camera; l’8 luglio al Senato) e ha riflettuto la pressoché totale assenza di dibattito politico e sociale. È necessario pertanto – almeno ora che il testo è legge dello Stato – riflettere e analizzare l’intervenuta modifica costituzionale.
L’oggetto della legge costituzionale e il suo iter
La legge costituzionale n.1/2021, nel suo unico articolo[1], si limita ad intervenire sull’art. 58 Cost. sopprimendo la seconda parte del primo comma, nel modo che segue:
«I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età».
Il dettato normativo è stato dunque reso identico a quanto previsto all’art. 55 Cost., primo comma, per l’elezione dei membri dell’altra Camera:
«La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto».
Per comprendere a pieno la portata normativa, entrambe le disposizioni costituzionali vanno lette in combinato disposto con l’art. 48 Cost. primo comma, che sancisce:
«Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età».
L’intervento normativo ha voluto dunque eliminare la differenza tra l’elettorato attivo della Camera e quello del Senato, che era configurato come una eccezione alle regola generale della maggiore età. Si noti: regola generale, in quanto prevista dall’art. 48 Cost. nella Parte I del testo costituzionale e quindi valevole per ogni carica elettiva. L’art. 55 riferito alla Camera non prevedeva infatti alcuna specificazione in materia di età minima, rendendo dunque applicabile il disposto dell’art. 48; oggi, eliminata l’eccezione dell’art.58 Cost. per il Senato, l’art.48 Cost. risulta applicabile anche ad esso.
Essendo una legge di revisione costituzionale, si è dovuto procedere ai sensi dell’art. 138 Cost.[2], e dunque con un iter aggravato[3].
La ratio della originaria differenza tra l’elettorato delle Camere
È bene indagare la ratio che ha portato i Padri Costituenti a prevedere due differenti età per essere parte del corpo elettorale della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Le ragioni di tale scelta sono intrinsecamente legate al bicameralismo perfetto, adottato per ragioni storiche nonché politiche. Anche il vecchio Regno d’Italia aveva due rami del Parlamento, ereditati dal Regno di Sardegna che li ottenne con lo Statuto Albertino, ma sotto i Savoia le competenze delle due Camere non erano esattamente le medesime[4]; anche la loro composizione era differente, in quanto il Senato del Regno era esclusivamente di nomina regia. Con la Repubblica, invece, Camera e Senato divennero entrambe assemblee elettive e si decise di confermare la struttura bicamerale (stavolta su un piano di perfetta parità) per avere un processo legislativo prudente, ragionato, dopo un ventennio di dittatura che aveva usurpato i poteri del Parlamento. Una massima attribuita a Luigi Einaudi spiega che «il bicameralismo perfetto serve a fare meno leggi», e se va intesa nello spirito più propriamente liberista di colui che si vuole l’abbia pronunciata, essa può certamente rappresentare anche la comune volontà che le due Camere equi-ordinate potessero (e possano ancora) evitare l’approvazione di leggi dettate dall’euforia del momento, dalla pressione dell’opinione pubblica, e passare invece all’altra Camera, a spiriti ormai placati.
Per questa ragione, il Senato venne pensato come “Camera di riflessione” (caratteristica propria di tutte le Camere Alte, anche nei sistemi bicamerali esteri), per ciò riservata a uomini e donne di età superiore, tendenzialmente più esperti e meno impetuosi, eletta da una platea parimenti formata. In tale modo – e non come capriccio o come scelta arbitraria priva di fondamento – vanno ovviamente letti i due commi dell’originario art. 58 Cost:
«I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età.
Sono eleggibili a senatori gli elettori che hanno compiuto il quarantesimo anno».
Si potrebbe allora pensare che la Camera dei deputati fosse completamente esente da tali aspettative di “riflessione”, ma non riuscirebbe allora a spiegarsi la previsione di cui all’art. 56 Cost. secondo comma:
«Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età».
In realtà, dai resoconti stenografici dell’Assemblea Costituente risulta che l’intenzione di tale maggiore limite, non coincidente con la maggiore età (allora prevista, si ricorda, ad anni ventuno) era ben diversa da quella che aveva portato alla differenziazione dell’età di elettorato per il Senato. All’emendamento dell’onorevole Corbi (PCI) volto e eliminare la differenza tra elettorato attivo e passivo per la Camera, il Presidente della Commissione per la Costituzione onorevole Ruini, rispose «tenendo conto che una differenza per il minimo di età fra elettori ed eleggibili è criterio ormai consueto ed accettato per quasi tutti i Parlamenti e in quasi tutte le Costituzioni»[5], richiamandosi quindi a un criterio “imitativo” piuttosto che a una ratio sottesa alla norma.
L’intenzione annunciata del Legislatore e le discrepanze nell’attuazione
La legge di riforma costituzionale ha conosciuto un largo sostegno da tutto l’arco parlamentare, ad eccezione di astensioni e dissensi avvenuti solo a titolo personale, senza perciò nessun gruppo parlamentare che si sia espressamente schierato contro il provvedimento legislativo né abbia dichiarato intenzione di voto contrario. È curioso rilevare come la principale intenzione espressa da tutte le forze politiche sia stata pressoché unanime, e cioè quella di stimolare, con l’approvazione di tale legge costituzionale, una più ampia partecipazione dei giovani alla vita politica del Paese. Basti pensare, a titolo esemplificativo, come la parola «giovani» sia stata pronunciata ben cinquantadue volte in sede di discussione generale nella sola seduta del Senato dell’8 luglio e altre ventisette volte nella discussione generale del giorno precedente[6].
Prima di tutto, bisogna tristemente rilevare come tali interventi programmatici abbiano – non volutamente, ne siamo sicuri – gettato un certo discredito sull’originario testo costituzionale, facendo apparire la scelta dei Padri Costituenti come insensata, arbitraria (senza perciò analizzare la ratio legata alla “Camera di riflessione”) o peggio ancora come un affronto o disprezzo nei confronti dei giovani, non ritenuti degni di esercitare pienamente in diritto di voto. Il che, come abbiamo avuto modo di verificare, non corrisponde al vero.
In seconda battuta, c’è da chiedersi se tale proposito sia stato applicato in modo coerente. Se si ritengono infatti i giovani degni di fiducia, se si vuole premiare loro per l’attivismo politico e incentivare la loro partecipazione alla vita pubblica del Paese, è davvero questa la via giusta?
In primis, bisogna rilevare che il diritto di voto non può essere usato come premio per coloro che si interessano alla politica (si noti che tale ragionamento presuppone una generalizzazione per cui tutti i giovani sono partecipativi e perciò vanno premiati). Paradossalmente, tale pensiero comporterebbe a contrario che il diritto di voto dovrebbe essere negato a coloro i quali si disinteressano completamente alla cosa pubblica. È un pensiero del tutto fallace, che va a minare il fondamento della democrazia e il principio di uguaglianza. Non vogliamo però credere che la ratio sottesa a una riforma costituzionale sia contraria allo spirito della Carta stessa.
Proviamo dunque ad analizzare un’altra argomentazione posta a sostegno della riforma, e cioè il voler incentivare la partecipazione dei giovani alla vita politica del Paese. Non credo si possa negare che la riforma costituzionale sia del tutto inadeguata al raggiungimento di tale scopo, come il regalare delle posate a un bambino che si rifiuta di mangiare. Se i giovani infra-venticinquenni sono disinteressati alla politica, è davvero surreale ritenere che l’acquisizione di un maggiore diritto di voto (che peraltro già essi posseggono per l’elezione di qualunque carica elettiva, eccetto il Senato, fino alla riforma di cui trattasi) possa improvvisamente far loro cambiare idea. A meno che, naturalmente, tali giovani rifiutino la partecipazione politica proprio perché offesi dalla previsione dell’originario art. 58 Cost; il che ci pare al di là di ogni immaginazione.
Se invece la ragione della legge costituzionale sta nel voler dare fiducia ai giovani, non può non rilevarsi che tale fiducia risulta data a metà: si ritiene che essi siano abbastanza maturi per poter votare, ma non a sufficienza per poter essere eletti. La riforma costituzionale lascia infatti del tutto immutato il regime previsto per l’elettorato passivo, con una età fissata a venticinque anni per essere eletti alla Camera dei deputati e di quaranta per diventare senatore.
Un’altra motivazione addotta dai favorevoli alla approvata legge costituzionale riguarda il bilanciamento di una discrepanza politica tra le due Camere, dovuta alla differenza di elettorato. Quando la Costituzione entrò in vigore, nel 1948, la maggiore età era fissata ad anni ventuno, per cui tra coloro i quali potevano votare per la Camera dei deputati e coloro che esercitavano il diritto di voto anche per il Senato della Repubblica intercorrevano solamente quattro anni. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975, la maggiore età venne portata ai diciotto anni[7], aumentando la differenza tra i due corpi elettorali fino a sette classi di età. Secondo i fautori di tale riforma costituzionale ciò sarebbe la causa per cui, più volte, la coalizione uscita vittoriosa dalle elezioni politiche disponeva della maggioranza dei seggi in una Camera ma non anche nell’altra[8]. Tale ricostruzione è parzialmente vera, in quanto l’assai significativa differenza nell’elettorato attivo è stata certamente causa della diversa formazione della maggioranza al Senato rispetto alla Camera. Ma si noti, questa è una causa e non la sola causa. A questa si accompagnano molti altri fattori, tra cui – non meno rilevante – il principio per cui il Senato è eletto su base regionale, mentre la Camera no; per non parlare, ancora, dell’influenza esercitata dalla legge elettorale[9]. Sarebbe riduttivo – e non completamente conforme al vero – affermare che con l’equiparazione del corpo elettorale le discrepanze tra i risultati di Camera e Senato siano stati risolti una volta per tutte. Di mezzo c’è, come spiegato, un impianto costituzionale e elettorale che vincola il Senato alle Regioni.
Cosa risulta dalla riforma costituzionale
Entrata in vigore la riforma costituzionale, abbiamo allora il bicameralismo perfetto – confermato dalla bocciatura del referendum costituzionale del 2016 che voleva superarlo – con due Camere più uguali di prima, ma non del tutto (si ricordi la differenza di elettorato passivo: venticinque anni per essere eletti deputati, quaranta per senatori). È spontaneo quindi domandarsi quale sia l’intenzione del Legislatore, e ammesso che non vi sia un progetto a lungo termine, bisogna rilevare che lo stato delle cose si presta a una certa instabilità e a un ulteriore intervento normativo: se si rendono minime le differenze tra i rami del Parlamento, è ovvio che, prima o poi, si scelga di equiparare completamente e definitivamente le due Camere oppure di imprimere una svolta all’impianto costituzionale e abbandonare il bicameralismo, perché stufi di un “doppione” tanto bistrattato, eppure spinto sempre più ad essere tale. Si sa infatti che le vie di mezzo non piacciono, e la riforma attuale rende il Senato “né carne né pesce”.
Una riflessione sul metodo
Al di là delle opinioni di merito, il cuore della questione sta nel metodo adottato dal Legislatore costituzionale di intervenire sulla Carta fondamentale con piccoli interventi continui e soprattutto – ancora peggio – non autosufficienti tra loro. Le ultime riforme costituzionali (riduzione del numero dei parlamentari e voto al Senato per i diciottenni) non si inseriscono infatti in una riforma organica, lungimirante e progettata; esse si occupano invece di cambiare qualche numero o parola. È chiaro che questa modalità di intervento sia più agevole, poiché permette di evitare contrasti ideologici e di trovare invece maggioranze più ampie; ma è altrettanto ovvio che queste maggioranze più ampie – necessarie per l’approvazione di una riforma costituzionale – si trovano su argomenti marginali, che non coinvolgono una idea politica e costituzionale profonda e compiuta.
Ma ha senso intervenire in questo modo sulla Costituzione? La Carta Costituzionale è il fondamento della Repubblica e ha un quid di sacro e di rispettabile che non appartiene invece alle leggi ordinarie; ciò dovrebbe comportare una estrema prudenza nel modificarla. Procedere a piccole, continue e irrilevanti modifiche ne compromette – a lungo andare – l’idea stessa di Costituzione: si rischia di minare l’autorevolezza, arrivando a considerarla una legge come tante, da cambiare quando, quanto e come si vuole. Si rischia infine che tutti questi mini-interventi, privi di un disegno unitario, siano tra loro scoordinati.
I più attenti hanno fatto notare che il Parlamento si sia affrettato a modificare la Costituzione senza aver ancora garantito l’applicabilità della precedente riforma costituzionale sul c.d. taglio dei parlamentari. A distanza di oltre un anno dal referendum confermativo del 2020, i Regolamenti della Camera e del Senato non sono stati ancora adattati ai nuovi numeri, con il paradosso che si è concesso ai diciottenni il diritto di votare per un Senato che sic stantibus non funzionerà!
Il voto al Senato per i diciottenni, in breve, non è la sciagura del Paese né tantomeno la soluzione a ogni problema dell’Italia. A maggior ragione, non sarebbe utile – specialmente ora, che è legge dello Stato – criticare questa riforma nei suoi contenuti; dovremmo invece riflettere sul metodo, ormai costante, di riforme elargite dal Legislatore costituzionale senza che i cittadini ne sentano l’esigenza. La questione fondamentale è che questa legge di riforma della Costituzione – si noti: riforma della Costituzione. Questo dovrebbe metterci sull’attenti! – non tocca in profondità l’interesse della società; percependo le novità come minime e marginali, non si va al di là di un superficiale accordo o disaccordo. Di interventi come questi, purtroppo ne abbiamo visti già altri (da ultimo, la riduzione del numero dei parlamentari, anch’essa completamente ignorata negli aspetti più profondi per seguire solo gli slogan). Ci permettiamo soltanto di sperare che questa riforma non sia «come tante altre».
«La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà». (Luigi Sturzo)
[1] «Al primo comma dell’articolo 58 della Costituzione, le parole: «dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età» sono soppresse». (art. 1, l. cost. 1/2021)
[2] «Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. / Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. / Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti». (art. 138, Cost.)
[3] L’iter legis è stato scandito dalle seguenti date: prima approvazione alla Camera nella seduta del 31 luglio 2019; prima approvazione al Senato nella seduta del 9 settembre 2020; seconda deliberazione alla Camera nella seduta del 9 giugno 2021; seconda deliberazione al Senato nella seduta dell’8 luglio 2021..
Nella seconda deliberazione alla Camera dei deputati hanno votato: 405 favorevoli, 5 contrari, 6 astenuti. Maggioranza assoluta 315 (raggiunta). Maggioranza qualificata 420 (non raggiunta). Nella seconda deliberazione al Senato della Repubblica hanno votato: 178 favorevoli, 15 contrari, 30 astenuti. Maggioranza assoluta 158 (raggiunta). Maggioranza qualificata 210 (non raggiunta). Ciò ha comportato l’impossibilità di promulgare immediatamente la legge costituzionale, dovendosi seguire la procedura più lunga di cui al terzo comma dell’art.138 Cost.
Il testo è stato quindi pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 13 luglio, senza formula di promulgazione bensì con l’avviso che entro tre mesi si sarebbe potuto richiedere il referendum confermativo. Il termine è spirato, senza che alcuna richiesta fosse pervenuta, in data 13 ottobre. Il Presidente della Repubblica ha dunque promulgato la legge costituzionale, che è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 ottobre. È entrata in vigore il 4 novembre.
[4] Il Senato del Regno aveva infatti anche ruolo di «Alta Corte di Giustizia» nei casi previsti dall’art.36 Statuto Albertino
[5] Assemblea Costituente, seduta di martedì 23 settembre 1947. On. Corbi: « Desidero osservare che la condizione prevista dall'articolo 54 per l'eleggibilità a deputato importa una grave limitazione a danno di una grande categoria di cittadini: quelli che vanno dai 21 ai 25 anni non compiuti; e mi sembra che ciò contrasti con i principi altrove affermati in questa stessa Carta costituzionale. Infatti mentre si riconoscono a questa così numerosa categoria di cittadini tutti i doveri e tutti i diritti (in sostanza, questi cittadini sarebbero buoni per fare la guerra, potrebbero e possono ricoprire importanti posti e nell'esercito e nell'Amministrazione dello Stato e sono tenuti al rispetto di tutte le leggi cosi come gli altri di maggiore età) non si vuol concedere ad essa di poter rappresentare la Nazione nel Parlamento. Credo perciò che questa limitazione non abbia ragion d'essere. Avrebbe, si, forse, una giustificazione qualora le nomine venissero dall'alto; poiché ciò non è, tale restrizione non ha fondati motivi. Saranno le stesse centinaia di migliaia di elettori a giudicare se, a prescindere dall'età (21, 22, 23 anni), i candidati abbiano i requisiti necessari, requisiti che soprattutto devono ritrovarsi nella fiducia che essi godono presso gli elettori. Pertanto insisto nel mio emendamento».
On. Ruini: «Sull'emendamento dell'onorevole Corbi il Comitato si pronuncia in senso non favorevole, tenendo conto che una differenza per il minimo di età fra elettori ed eleggibili è criterio ormai consueto ed accettato per quasi tutti i Parlamenti e in quasi tutte le Costituzioni. Il criterio dell’età non ha valore assoluto, come ha esposto l'onorevole Corbi; è vero che tutti a 21 anni possono entrare negli uffici. Ma ai posti direttivi arrivano ad un'età maggiore. Si può chiedere qualcosa più della minima età a chi diventa deputato. D'altra parte, venticinque anni è un'età piuttosto bassa; prima il limite era a trenta anni. Il Comitato, a maggioranza, non ha accettato l'emendamento».
[6] La discussione che ha preceduto la seconda deliberazione del Senato della Repubblica si è aperta il 7 luglio 2021 alle ore 17.55 (presidenza del vice presidente Calderoli), per poi proseguire il giorno seguente, 8 luglio, alle ore 9.40 (con la stessa presidenza del vice presidente Calderoli).
[7] Art. 1, L. 8 marzo 1975, n. 39: « L'articolo 2 del codice civile è sostituito dal seguente: "Art. 2. - (Maggiore età. Capacità di agire). - La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. […]».
[8] Nel 1994, il centrodestra ebbe la maggioranza dei seggi alla Camera ma non anche al Senato. Il contrario accadde nel 1996 per l’Ulivo.
[9] La L. 21 dicembre 2005, n.270 (c.d. Porcellum) prevedeva infatti per il Senato ben diciassette premi di maggioranza regionali (invece che un unico premio di maggioranza nazionale) in tutte le Regioni eccetto Molise, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige. Anche questo contribuì all’assenza della maggioranza in entrambi i rami del Parlamento.