di Paolo Balduzzi

Tra poche settimane, il 20 e 21 settembre, si terrà il quarto referendum costituzionale della storia repubblicana, per confermare o meno il taglio di circa 350 parlamentari tra Camera e Senato.

Solo il primo di questi referendum, quello che nel 2001 cambiò radicalmente e non senza criticità i rapporti tra stato, regioni ed enti locali, ottenne l’approvazione necessaria alla sua promulgazione; al contrario, i due successivi, quello del 2006 e più recentemente quello del 2016, vennero bocciati dal corpo elettorale. I fronti del sì e del No sono sempre più attivi e il dibattito scaturito piuttosto interessante: ma per chi voglia farsi una posizione è difficile uscirne in maniera convinta. Forse perché la prospettiva è sbagliata: invece che chiedersi infatti se sia meglio votare Sì o votare No, vale forse la pena di concentrarsi solo su come gestire le conseguenze dei due esiti.

E oggettivamente di riconoscere tutti che, per il paese, danni e guadagni non sembrano così rilevanti come i convinti sostenitori del Sì o del No dichiarano. E se nel caso di vittoria nel No si rimarrebbe con uno status quo istituzionale ormai ben noto, è invece più utile riflettere su cosa davvero accadrebbe nel caso – più probabile - di vittoria del Sì. Non tanto perché lo si auspichi ma per esigenza di realpolitik, cioè esattamente nell’ottica di provare a capitalizzare al meglio questa riforma. In effetti, il Sì appare estremamente favorito. In parlamento, l’opposizione alla riforma è stata piuttosto blanda; quasi tutti i partiti presenti, seppur in diverse votazioni, hanno votato almeno una volta per la sua approvazione; la richiesta di referendum confermativo è arrivata da un quinto risicato dei membri del senato (cioè da chi teme di perdere lo scranno) e non da cinquecentomila elettori: il fronte del No non ci aveva nemmeno provato a raccogliere le firme, temendo probabilmente di buttare tempo e risorse; infine, anni di retorica anti-casta, più o meno motivata, hanno probabilmente ormai convinto l’opinione pubblica che questo taglio sia una necessità.

Gli ultimi esempi di politici ben pagati che hanno richiesto il bonus di 600 euro, sottraendolo così a chi ne aveva veramente bisogno, non hanno certo aumentato la simpatia per la classe politica. Cosa succederebbe quindi se vincesse il Sì? Partiamo dai benefici: secondo i sostenitori della riforma, eliminazione di uno spreco altamente simbolico; risparmi irrisori secondo il fronte dei contrari. In effetti, è curioso che una riforma con l’obiettivo di risparmiare risorse non le quantifichi precisamente. Le stime più generose, secondo alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle, arrivano a circa 100 milioni di euro. È evidente che 100 milioni di euro su 1600 miliardi di prodotto interno lordo, su 800 miliardi di spesa pubblica, su 300 miliardi di spesa per pensioni o anche solo su 80 miliardi di spesa per interessi passivi sembrano – e in effetti sono – irrisori. Ma ragionando in termini di microprogrammi, per esempio la spesa sostenuta annualmente dai comuni per finanziare gli asili nido (1,2 miliardi di euro), diventano una cifra che permetterebbe per esempio di ampliare l’offerta per un servizio ad alto potenziale, sia per la crescita demografica sia per quella economica del paese.

A maggior ragione quando l’emergenza covid mette ancora in dubbio l’apertura di questi servizi e quindi servono risorse per aiutare le famiglie con figli piccoli. Tuttavia, i benefici sembrano finire qui: difficile credere che le istituzioni saranno più efficienti o che la qualità dei lavori delle camere possa migliorare grazie al mero taglio dei parlamentari. Arrivando agli aspetti negativi, quello principale riguarderebbe la diminuzione del rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, che considerando solo la Camera ci posizionerebbe addirittura all’ultimo posto in tutta Europa. Senza dimenticare che quando la Costituzione entrò in vigore, nel 1948, la popolazione era inferiore a quella attuale. Tuttavia, in un contesto bicamerale perfetto come quello italiano, bisognerebbe considerare la somma di deputati e senatori (questo ci porterebbe più vicino alla media europea); inoltre, spaziando oltre il confine europeo, si trovano esempi di democrazie antiche e ben funzionanti che avrebbero un rapporto tra eletti ed elettori ancora più basso (gli Stati Uniti su tutti). Insomma, l’argomento ha un indubbio valore di principio. Ma si può davvero affermare che la qualità della democrazia sarebbe inferiore riducendo il numero dei parlamentari? Forse che i comuni o le regioni funzionino peggio, o che i cittadini si sentano meno rappresentati, dopo la “cura dimagrante” dell’ultimo decennio sul numero di rappresentanti negli enti locali? Un altro aspetto negativo di una vittoria del sì è che potrebbe creare un problema politico all’attuale parlamento, composto da un numero di membri superiore a quello desiderato dalla popolazione: un sì sarebbe foriero di un voto anticipato? Anche qui, difficile crederlo.

La verità è che l’unica vera debolezza di questa riforma è che rischia di non servire a nulla, creando risparmi irrisori - peraltro magari non finalizzati a niente di particolarmente utile per la cittadinanza – e non aumentando la qualità delle istituzioni. Ecco, proprio questo limite dovrebbe invece tramutarsi in stimolo per il legislatore stesso a riprendere il filo di riforme più coraggiose e organiche: per esempio sul ruolo, i poteri e l’eleggibilità del Presidente del consiglio, o su come finalmente differenziare i compiti delle camere, o ancora sulla possibilità di ampliare la platea dei cittadini eleggibili, abbassando i limiti di età per l’elettorato passivo. La qualità della democrazia non dipende solo, se mai davvero dipende, dalla dimensione delle istituzioni, ma anche e soprattutto dai meccanismi di controllo e disciplina degli eletti. I quali migliorano con regole elettorali semplici e quanto più costanti (a proposito perché non cogliere l’occasione per inserire la legge elettorale proprio in costituzione?). Dipende anche dalla qualità dell’informazione a disposizione dei cittadini e dal loro grado di istruzione, che si possono aumentare fornendo strumenti di analisi critica quali educazione civica e finanziaria già nella scuola dell’obbligo.

E, infine, anche aumentando le occasioni di confronto e partecipazione attiva: chi ha paura della democrazia diretta, ove sia ben equilibrata dalla necessaria e più efficiente democrazia rappresentativa? Purtroppo, al momento, come elettori siamo ancora di fronte a una scelta davvero povera, seppur ricca di potenzialità. Se questo referendum e questa modifica costituzionale verranno ridotte invece a mero totem elettorale, non si farà onore né al parlamento, né alla costituzione, né tanto meno allo stesso corpo elettorale.

01-09-2020
Autore: Paolo Balduzzi
Docente di Economia pubblica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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