di Paolo Balduzzi
È arrivato giugno, il mese per eccezione dedicato agli esami e alle pagelle. I più nostalgici ripenseranno di certo alla propria giovinezza; tuttavia, nei palazzi di governo, questi termini evocano ricorrenze ben meno piacevoli. È arrivata infatti proprio ieri la pagella della Commissione europea sui conti italiani e, come ci si aspettava, il tabellone con i voti non sorride completamente al nostro Paese. Non c’è due senza tre: l’Unione ha certificato l’apertura di una “procedura per deficit eccessivo” (Pde), la terza, dopo quelle del 2005 e del 2009. Certo, a essere pignoli, in questi quasi trent’anni i richiami europei sono stati molti di più: nove in totale fino all’altro ieri.
Ma il governo italiano, nella maggior parte dei casi, è riuscito a sistemare i conti prima dei passaggi formali e ufficiali richiesti dalle norme europee. Non è una sorpresa, si diceva; e, anzi, con le nuove regole del Patto di stabilità e crescita (Psc) è addirittura una buona notizia. Perlomeno per un paese come l’Italia, che soffre sia di un rapporto deficit su prodotto interno lordo (Pil) superiore al limite concesso (nel 2023, 7,4% invece del 3%) sia, e soprattutto, di un rapporto debito su Pil eccessivo, ben oltre quota 90% (e cioè del 137%, sempre nel 2023). La Pde richiede infatti che si debba prima rientrare nei limiti del deficit (più agevole) e solo in seguito concentrarsi su quelli del debito (ben più difficile). In altre parole, e senza scendere in dettagli tecnici, significa avere ancora qualche anno per stabilire la strategia migliore di riduzione del rapporto debito su Pil. Siamo in buona compagnia: in una classe composta da 27 alunni, per proseguire con il parallelismo, altri sei compagni hanno ricevuto una pagella simile, pur non essendo tutti nella stessa situazione. In Italia, il punto di partenza non è certo dei migliori (e forse è addirittura tra i peggiori); ciò che conta di più, però, è la prospettiva, che ci vede al contrario tra i paesi un po’ più ottimisti. La crescita economica c’è, anche se timida; i dati su inflazione e occupazione sono incoraggianti; gli scenari macroeconomici sono in miglioramento, come certificato dalla stessa Commissione; infine, il governo appare solido: il paese dovrebbe essere quindi al riparo dalle solite speculazioni cui l’instabilità passata ci aveva abituato. All’opposto di Parigi, giusto per fare un esempio, dove le prossime elezioni rischiano, da un lato, di far piombare il paese in una coabitazione dall’esito incerto e, dall’altro, di peggiorare comunque i conti pubblici, a causa delle tipiche promesse populiste da campagna elettorale che caratterizzano tutti i contendenti. Inizia quindi ora il momento delle scelte, che potrebbero comunque sollevare qualche malumore. Non solo nei confronti del governo ma anche della stessa Unione europea. Molti, infatti, la ritengono eccessivamente invasiva nelle scelte di politica fiscale degli stati membri. Può essere che sia così. E può anche essere che le regole del nuovo Psc non siano le migliori possibili. Ma ciò che vale la pena chiedersi è come, pur in assenza di tali vincoli, dovrebbe comportarsi il nostro paese. In passato, la politica si è troppo spesso abituata a rimandare le misure strategiche ma impopolari e a concentrarsi su quelle che portano voti; in altre parole, a preferire le generazioni correnti a quelle future. Negli ultimi dieci d’anni, sono tuttavia intervenute nuove norme nella nostra stessa Costituzione a richiedere sia maggiore rigore di bilancio sia consapevolezza sull’importanza delle generazioni future. Questi due importanti principi rischierebbero di rimanere solo sulla carta se non ci fosse un meccanismo di controllo, a volte fastidioso ma certamente più efficace, come quello dell’Unione europea. In altre parole: il nostro Paese ha tutto l’interesse a sistemare i conti pubblici. E non (solo) perché ce lo sta chiedendo l’Europa: bensì perché un bilancio sano e un debito pubblico sostenibile sono alla base di una convivenza pacifica e reciprocamente rispettosa tra le diverse generazioni. Forse la sfida più ambiziosa per un governo: di qualunque colore e di qualunque nazione.