Fausta Speranza 

L’interdipendenza da anni ci chiede di pensare un vero progetto comune, da tempo si parla di una globalizzazione che non può restare senza forme di governance globale. L’infezione da Covid 19 ci ha inchiodati alle urgenze.

Non ci sono solo i sistemi sanitari, la viabilità mondiale ad essere messi in discussione dalla pandemia, ma un mondo che tende a ridistribuire la potenza politica e la ricchezza concentrandola in capo ai giganti emergenti. Mentre registravamo il moltiplicarsi di conflitti e l’inasprirsi della forbice delle disuguaglianze sociali in praticamente tutte le aree geografiche, è arrivato lo spettro di una debacle dell’economia ma, soprattutto, si profila il rischio di mettere in discussione l’ordine liberale su cui ci siamo basati per decenni. L’Italia, primo Paese democratico ad affrontare lo tsunami del contagio, è diventata modello per altri Paesi che pensavano di gestirlo diversamente. Sembra l’occasione simbolicamente propizia per riscoprire le potenzialità della penisola a sud d’Europa e a nord del Mediterraneo. E la presidenza di turno del G20 nel 2021 può rappresentare l'orizzonte di un impegno che deve e può avere come faro lo straordinario spessore umanistico che ha salvato il vecchio continente dai periodi più bui. 

       Come dice papa Francesco, nel mondo è guerra mondiale a pezzi. Non si può negare visto l’attuale numero di focolai di violenze. Stanno in guerra per la sopravvivenza anche gli 820 milioni di persone che ogni giorno soffrono la fame, mentre il divario tra ricchi e poveri è aumentato al punto che l’un per cento della popolazione globale possiede una ricchezza pari a quella del restante 99 per cento. E hanno un nemico da sconfiggere anche i 40 milioni di vittime dell'ignobile tratta di esseri umani. Il fenomeno è trasversale perché, in una fase storica segnata dalle multinazionali, anche gli affari criminali viaggiano su scala globale. E la globalizzazione delle organizzazioni illecite non conosce crisi o recessioni: hanno accesso ai fondi che provengono dalle attività criminose che non si fermano e non rallentano durante i periodi di crisi.     

       Sarebbe bello pensare che siano motivo di speranza le mobilitazioni di piazza cui abbiamo assistito dal Nord Africa al Medio Oriente, da Hong Kong all’America Latina. Vogliamo credere che siano il segno di processi evolutivi, ma per il momento sono innanzitutto la manifestazione delle diverse profonde lacerazioni sociali che imbrigliano i Paesi.

       Da una parte, la globalizzazione ha migliorato le condizioni di vita in larga parte del globo, dall’altra, ha provocato tensioni e disuguaglianze pronunciate nei Paesi a economia matura e ha finito di strozzare alcune piccole economie locali. Risulta insufficiente l’azione delle istituzioni economico-finanziarie multilaterali e questa consapevolezza ha generato una diffusa disaffezione delle popolazioni verso queste stesse istituzioni, Unione Europea inclusa. Il punto è che mentre aumentano le esigenze di governance globale vengono messi in discussione i mezzi che permettono di soddisfarle.     Ma in discussione devono essere la soluzione multilaterale o, piuttosto, le insufficienze delle istituzioni che incarnano l’ordinamento internazionale? La chiarezza nel porsi questo interrogativo è doverosa. Si palesa la sfida delle sfide: quella di respingere la tentazione di tornare alla concorrenza fra gli Stati, come un secolo fa.

       Il multilateralismo ha consolidato le prerogative dei cittadini, che, espresse e riconosciute in precedenza dalle sovranità individuali degli Stati, si sono successivamente trasfuse nella protezione offerta a livello internazionale. Basti pensare alla Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo. Ma di questi tempi non possiamo dare per accantonato definitivamente il criterio della forza. Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, ci si interroga sulla bontà di ambiti e sistemi in cui la applicazione del requisito “uno Stato un voto” può portare alla spiacevole sensazione di soggiacere a decisioni prese da altri. Prendono forza anche altrove posizioni a carattere revisionista, rispetto a quelle all’origine della creazione dell’architettura degli organismi internazionali.

     Sostituire alle politiche di cooperazione quelle di competizione certamente non aiuterebbe. E’ urgente difendere pace e giustizia al centro dei doveri degli Stati nei rapporti internazionali. E’ quello che emerge dalla Costituzione italiana in particolare dagli art. 10 e 11 che indirizzano e guidano l’azione della Repubblica. Può essere la prima indicazione di rotta per la presidenza italiana del G20.

       Dopo la crisi finanziaria del 2008 i leader mondiali hanno cercato soluzioni multilaterali anche in tema di economia e hanno tenuto il primo vertice dei leader del G20 a Washington, andando oltre il ristretto orizzonte dei 7 (o 8 con la Russia) Paesi più industrializzati. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio globale e i due terzi della popolazione, nonché circa il 60 per cento dei terreni coltivabili e l’80 per cento circa del commercio di prodotti agricoli.      

       Avevamo pensato di circoscrivere così il dibattito al margine da dare o meno al multilateralismo, mentre si discuteva di una possibile riforma delle Nazioni Unite che rispettasse meglio gli equilibri attuali tra Paesi. Il coronavirus, invece, con la sua spiazzante capacità di intrusione in quasi ogni angolo di mondo e di scuotimento di ogni sistema Paese, ha centrifugato i dibattiti. Resta una prospettiva sopra qualunque altra: mettere al riparo dalle spinte nazionalistiche i pilastri della democrazia e i presupposti del bene comune: significa lotta alla povertà e alle ingiustizie sociali, difesa di valori come la solidarietà. Pensavamo di averlo fatto con la costruzione europea, ma è ancora troppo fragile in tema di politica estera e di politica economica. Due aree chiamate direttamente in causa dalla pandemia del Covid 19. La sensazione è davvero di essere a un bivio: o rafforziamo le architravi istituzionali o ci sarà spazio solo per nazionalismi e potenze regionali. I cittadini europei, passata l’emergenza e i flash mob di incoraggiamento, potrebbero scoprirsi più disorientati, più arrabbiati di prima.

        Si può fare tanto su tematiche specifiche come quella urgente della questione fiscale. L’Ocse lavora per la creazione di un nuovo sistema internazionale adeguato al ventunesimo secolo, che corregga almeno due grossi vulnus. Il primo è che gli utili dei colossi tecnologici - siano statunitensi, europei o cinesi - non sono tassati in modo adeguato. Il secondo è che l’attuale sistema consente il dumping fiscale e distorce la concorrenza.  

       Vale la pena ricordare l’intelligente provocazione che George Orwell mette in bocca a uno dei suoi personaggi di 1984: “La scelta per l’umanità è tra libertà e felicità e per la stragrande maggioranza la felicità è meglio”. Se il prezzo della crisi che inesorabilmente si pagherà a seguito del Coronavirus dovesse essere riversato sui cittadini - come è stato per i danni della finanza creativa a partire dal 2008 - potremmo assistere a un’onda di nazionalsocialismi populisti, razzisti, totalitari più lunga e invasiva del previsto. Potremmo scoprire che, nonostante i numeri sull’alfabetizzazione, ampie fette della popolazione non hanno consapevolezza che non può esserci felicità senza libertà. Abbiamo già avuto un’idea di cosa comporti manipolare fette di popolazione con le fake news. Non significa solo una rovinosa resistenza nei confronti dei vaccini. Significa far passare i limiti delle democrazie come più gravi di ogni limitazione dei regimi dittatoriali o semi dittatoriali che assicurano il soldo. Va scomodato Toqueville, che insegna: “La democrazia è il potere del popolo informato”. Se è solo potere di popolo è populismo. Servono buon giornalismo e Sapere. Ma innanzitutto ci vogliono buone politiche da raccontare. Il punto è che, se viene meno la capacità da parte delle democrazie occidentali e in particolare dell’Europa di difendere i propri cittadini rischia di venir meno non solo la fiducia nell’Europa unita, ma anche in quello che rappresenta: un baluardo a difesa dello Stato di diritto.        

       Per l’Italia c’è un terreno particolarmente fertile. Le politiche di sviluppo comprendono anche missioni negli ambiti della ricerca archeologica, antropologica, etnologica, che si estendono cronologicamente dalla preistoria all’epoca medioevale e geograficamente dal Vicino Oriente all’Africa, dall’Estremo Oriente all’America Latina. Non si tratta solo di attività scientifica di studio, ma di un prezioso strumento di formazione nel settore del patrimonio culturale in cui l’Italia si colloca a un livello di eccellenza internazionalmente riconosciuto. Come avremo bisogno di regole comuni per affrontare la crisi delle aziende – quello del settore aereo è solo un esempio – così avremo bisogno di regole comuni per difendere lo spazio culturale, che rappresenta il più privilegiato luogo di incontro, di promozione del dialogo, antitesi dei conflitti.  E l’Italia deve sapersi giocare la carta della sua cultura così centrale nella vicenda del mondo Occidentale. Un patrimonio unico di umanesimo da rimettere in campo.  

Alcuni scenari particolari:

Europa all’appello

       Per i Paesi occidentali che ci siamo abituati a ritenere leader in tema di pace e di sviluppo dobbiamo considerare sfide cruciali.       

       L’Europa ha aperto l’anno con la certezza della Brexit ma anche con tutti gli interrogativi sulla sua attuazione. Dal 1 febbraio è iniziato il periodo di transizione fissato fino alla fine del 2020. Fino al 31 dicembre di quest’anno non doveva cambiare nulla, ma il coronavirus non era previsto. Le incertezze hanno lasciato il posto a assoluti punti interrogativi. Diciamo che ci sono in ballo diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro tra l’Europa e il Regno Unito. Finora il premier Boris Johnson ha detto che non ci sarà assolutamente nessun rinvio e che quindi o si chiude un accordo commerciale con l’Unione Europea entro dicembre oppure il Regno Unito sarà fuori senza accordo. Ma nel frattempo è arrivato il coronavirus e rinviare le scadenze potrebbe essere una priorità per tutti. Finora non si è mai vista l’Ue tanto unita come nel fronteggiare il Regno Unito. Sarebbe fallimentare cambiare registro.  

       Intanto, l’Europa si è chiusa al mondo. E si spera sia un segno di compattezza e non la somma di tante chiusure. La decisione di serrare per un mese le frontiere esterne con le dovute eccezioni è  stata accompagnata da propositi di solidarietà: corsie preferenziali per il passaggio dei materiali medici, difesa della libera circolazione delle merci sul territorio, primi aiuti. E’ evidente che siamo davanti a una decisione senza precedenti in risposta alle serrate in ordine sparso tra i Paesi dell’area Schengen cui si è assistito man mano che il virus faceva la sua comparsa nei Paesi membri.

         Di fronte al Covid 19 l’Italia ha scelto, senza se e senza ma, la salute della popolazione e gli altri governi, dopo aver accarezzato l’idea della cosiddetta “immunità di gregge” per non fermare l’economia, hanno seguito lo stesso esempio. E, a quel punto, l’Europarlamento e la Commissione si sono sbilanciati a promettere che l’Ue sarà unita, mettendo in campo risorse considerevoli per fronteggiare il contraccolpo finanziario e soprattutto autorizzando deroghe al patto di stabilità. Si è tornato a parlare di bond comunitari, invocati come coronavirusbond dal presidente del consiglio dei ministri italiano Giuseppe Conte. Per anni nostri economisti, come il professor Alberto Quadrio Curzio, hanno invocato eurobond. E deve essere immediatamente chiaro che stare dalla parte dei cittadini in questa emergenza attuale deve significare combattere l’infezione ma anche prepararsi a gestire il dopo tsunami in termini di conseguenze economiche per cittadini, famiglie, imprese. Dopo anni di espressioni retoriche sull’ultima chiamata all’Ue, si avverte esattamente la sensazione che si sia arrivati all’ultimo appello.

Gli Stati Uniti al voto

         Negli Stati Uniti la rielezione di Trump nel voto presidenziale di novembre prossimo sembrava scontata fino all’arrivo del coronavirus, fattore in grado di rimettere in discussione le certezze della sua politica sotto lo slogan America first e il suo carisma. Trump ha prima relegato la questione a un virus cinese non arginato in un Paese come la Cina che “ha nascosto i pericoli” o “in un Paese piccolo come l’Italia”. Ha poi dovuto ammettere l’emergenza nazionale nel giro di pochi giorni prendendo atto del contagio in tutti e 50 gli Stati dell’Unione. Inizialmente ha annunciato lo stop ai voli nei Paesi europei ad eccezione del Regno Unito, dove il premier Johnson difendeva la scelta di non fermare nessuna attività, ma nell’arco di 24 ore ha tagliato fuori dalle rotte aeree anche la Gran Bretagna.  Nelle stesse ore, il fronte democratico, con le primarie, si è compattato intorno alla figura di Joe Biden. Potrebbe ora trovare terreno più fertile nella battaglia contro l’approccio iperliberista difeso da Trump anche in tema di sanità nazionale.

Il gigante cinese

         La Cina in pochi anni ha sviluppato una forte e moderna economia, che le ha fatto raggiungere nel 2014 il traguardo di prima economia mondiale per PIL a parità di potere d’acquisto. Non è più solo la “fabbrica” del mondo, ma ha anche una certa propensione al consumo, ed è diventata leader dell’high-tech, dell’alta velocità, dell’elettronica, dell’energia rinnovabile. Le scelte geopolitiche del governo di Pechino stanno rivelando la volontà di guidare il mondo. Ora, dopo diversi mesi sotto l’assedio del coronavirus fa i conti con i rientri di connazionali infettati all’estero e soprattutto con le conseguenze dello tsunami dei contagi.  Nell’immaginario resta la figura del dottor Li Wenliang che per primo ha segnalato in un gruppo privato di WeChat, l’app di messaggistica cinese, la possibile esistenza di un nuovo virus dello stesso genere della micidiale Sars. E’ stato interrogato dalla polizia locale con l’accusa di aver diffuso falsi allarmi e costretto a firmare una dichiarazione in cui ammetteva le sue responsabilità. È stato riabilitato solo dopo che il governo centrale ha diffuso la notizia ufficiale dell’epidemia. Alla sua morte per Covid 19, un gruppo di intellettuali ha immaginato una giornata per la libertà di espressione proprio nel giorno della sua scomparsa. Sui social effettivamente è esplosa la rabbia dei cittadini sui ritardi, ma il governo centrale ha risposto incriminando le autorità locali. Resta quell’hashtag condiviso milioni di volte prima di essere censurato: “Noi vogliamo la libertà di parola” (我们要言论自由 wŏmen yào yánlùnzìyóu).    In Cina si sta formando, lentamente, una società civile che cerca di erodere la centralizzazione politica. Ma l’emergenza da coronavirus in realtà, al di là della figura del dottor Li, rischia di limitare l’evoluzione di tale mobilitazione, in particolare con la quarantena forzata di milioni di cittadini e il controllo serrato su internet come sui movimenti delle persone.

         Non si può dimenticare Hong Kong, dove a quasi un anno dal loro inizio, le proteste non sono sparite a fine anno soltanto dalle home page dei siti internazionali, ma anche dalle strade della regione autonoma cinese nella quale per mesi centinaia di migliaia di manifestanti hanno chiesto più democrazia e maggiore indipendenza dalla Cina. Oltre 7.000 arresti, migliaia di feriti e almeno due morti direttamente legati alle proteste. La svolta c’è stata dopo il trionfo alle elezioni locali dei partiti   che sostenevano i movimenti delle proteste, con un tracollo di quelli legati all’establishment di Hong Kong e al partito comunista cinese.

L’incognita Russia

         Per la Russia è stato giallo coronavirus: per diverse settimane non si aveva notizia di casi nonostante i forti scambi con l’Europa e la Cina. Poi il 18 febbraio è arrivata la prima vittima. Il momento è cruciale per il presidente Putin: alla guida del Paese da vent’anni alternando il ruolo di primo ministro e di presidente, si prepara a succedere a se stesso con una riforma costituzionale che cancella il limite dei due mandati e consente al presidente in carica di ricandidarsi nel 2024. Dopo l’approvazione in parlamento e il placet della Corte Costituzionale che ha dichiarato le riforme “compatibili con la legge”, l’ultimo passo da fare è il referendum. La data individuata è quella del 22 aprile, ma non è detto che – a causa dell’emergenza coronavirus – non sarà rinviata.  

Sulla via della Seta polare

       Lo scorso 2 dicembre, in videoconferenza rispettivamente da Sochi e Pechino, il presidente Putin e il presidente Xi Jinping hanno assistito all’inaugurazione del gasdotto Forza della Siberia e simbolicamente rilanciato le relazioni commerciali e politiche tra i loro due Paesi. Il prezzo del gas rimane un segreto commerciale, ma fonti confermano che il valore complessivo del contratto (valido per i prossimi 30 anni) si aggira sui 400 miliardi di dollari. Sebbene in passato le relazioni tra i due Paesi siano spesso state animate da sentimenti contrastanti, ora viene rilanciato “il partenariato strategico russo-cinese nel settore energetico a un livello completamente nuovo”, per usare le parole dello stesso presidente russo.  

         Oltre a gasdotti ed esercitazioni militari congiunte, Russia e Cina puntano anche a rafforzare i loro legami commerciali. L’anno scorso il volume degli scambi commerciali sino-russi ha raggiunto per la prima volta la cifra di 100 miliardi di dollari, e si punta al raddoppio entro il 2024. C’è la Via della Seta Polare. La regione artica è ricca di risorse e ha un grande valore politico e commerciale. Idealmente connette Asia, Europa e Nord America, cioè le regioni dove si concentra il 90 per cento del commercio internazionale. I cambiamenti climatici e lo scioglimento dei ghiacci, in particolare nei mesi estivi, potrebbero aprire un nuovo ventaglio di opportunità che sia Russia e Cina sono ansiose di esplorare.

         Mosca e Pechino hanno infatti subito entrambe delle “sanzioni” da Washington, sia di tipo politico che economico. Entrambi i Paesi contestano l’egemonia statunitense e cercano di trovare nuove alternative all’attuale ordine mondiale, seppur ovviamente con mezzi e modalità diverse. Vedremo se il 2020 rafforzerà o meno l’intesa tra Mosca e Pechino e cosa potrà il coronavirus. In questa e in altre convergenze.

 Nel bollente contesto del Vicino e Medio Oriente

         Il conflitto israelo-palestinese si è riacutizzato mentre non si fermano le violenze a Gaza e in Cisgiordania. C’è nuova tensione dopo la scelta del presidente Usa Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, nel 2019, e poi, a inizio del 2020, di proporre un piano di pace che prevederebbe, tra l’altro, il riconoscimento da parte palestinese di “Gerusalemme capitale indivisa di Israele”.

          Il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran è stato segnato il 3 gennaio del 2020 dall’uccisione voluta da Trump del generale di Teheran Qasem Soleimani, capo della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla repubblica islamica.  Al di là dell’immediata rappresaglia iraniana l’8 gennaio contro basi statunitensi in Iraq, si sono aperte nuove falde di conflittualità e si sono rafforzate alcune distanze su quello internazionale, a partire dalla difficile posizione dell’Ue nei confronti della politica estera statunitense e dall’accentuata lontananza tra l’amministrazione a Washington e la presidenza di Vladimir Putin a Mosca, da sempre alleato dell’Iran.  

         Peraltro in Iran, mentre cresce l’epidemia di coronavirus e aumentano le sue vittime, a causa della mancanza di personale medico e della loro stanchezza per il grande numero di pazienti, riemerge il rischio di una rivolta popolare.

       Tralasciando l’escalation di tensione tra Israele e Hezbollah nel sud del Libano, bisogna guardare alla crisi siriana. Il conflitto è entrato nel suo drammatico decimo anno di carneficina. Nel nord ovest si continua a combattere mentre in tutto il Paese scarseggia cibo e oltre la metà delle strutture sanitarie risulta distrutta. Gli ospedali, infatti, sono stati e sono presi di mira dai bombardamenti. E’ solo una delle prove dell’assenza ormai totale di qualunque rispetto del diritto internazionale in materia di belligeranza. La crisi in Siria, scoppiata il 15 marzo 2011 con le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo, è diventata “guerra civile”, segnata dal dilagare tra Siria e Iraq del cosiddetto califfato del sedicente Stato islamico (Is) sconfitto solo nel 2017. Sono intervenuti sul campo Russia, Stati Uniti, Turchia, oltre ad altri attori regionali, come l’impegno delle forze curde contro l’Is e la partecipazione dell’Iran – insieme con Mosca e Ankara - ai colloqui di pace ad Astana, in Kazakhstan, in parallelo a quelli dell’Onu a Ginevra. A inizio 2020 sono saltate alcune alleanze contro i ribelli: l’esercito siriano e quello turco si scontrano. Damasco accusa Ankara di ingerenza sul suo territorio e Ankara accusa Damasco di non rispettare la zona di de-escalation stabilita in precedenza nell’ambito dei colloqui tra Siria, Russia, Turchia, Iran. Di fatto, nella fase finale del conflitto si è aperta la questione della spartizione di potere sul territorio siriano tra quanti hanno appoggiato il presidente al-Asad. In gioco c’è il controllo di porti e pozzi petroliferi. A questo punto è evidente che si ragiona solo in termini di capacità di azione di potenze regionali con buona pace del diritto internazionale. E l’Occidente non dovrebbe girarsi dall’altra parte.

         L’aggravarsi della situazione umanitaria nello Yemen è un altro motivo di seria preoccupazione. Dopo l’accordo di Hodeidah tra l’esercito appoggiato dalla coalizione a guida saudita e i ribelli non è finito il dramma delle forniture e degli approvvigionamenti essenziali per una popolazione stremata.

         L’Iraq, dopo gli indicibili crimini inflitti dal sedicente Stato islamico alla popolazione – in particolare ai membri di minoranze religiose ed etniche – offre qualche speranza nel procedere verso la via della riconciliazione e della ricostruzione, ma la fase è estremamente delicata tra forti proteste e scontri. E il Paese è diventato terreno di confronto, tra l’altro, tra Washington e Teheran, che vorrebbe vedere ritirarsi tutte le forze statunitensi dal territorio iracheno. Anche in questo caso si palesa con sempre maggiore inquietudine la questione dello sfruttamento delle risorse energetiche.

         C’è poi la tensione nello Stretto di Hormuz, un limitato tratto di mare che divide il Golfo Persico dal Golfo dell’Oman che è stato al centro delle cronache a metà 2019. Da non dimenticare: anche qui, tra attacchi alle petroliere e abbattimenti di droni, si gioca la competizione tra Iran e Stati Uniti. Sullo sfondo rimane l’irrisolta contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran.

         Spostando lo sguardo all’Afghanistan troviamo un Paese che gioca la sua partita più importante: per la pace con i talebani. Si sono seduti al tavolo delle negoziazioni con gli Stati Uniti ma non si può sapere cosa succederà se le forze Usa si ritireranno. A diverso titolo sono tanti gli altri attori statali coinvolti: Pakistan, Russia, Cina ed Iran sono tra i principali e tutti con interessi contrastanti. E  il cosiddetto Stato Islamico è stato sconfitto in Iraq e Siria, ma da sempre ha scelto l'Afganistan come una delle sue principali basi operative.

L’Africa tra conflitti e carestie

       Al conflitto in Libia fa da sfondo la crisi nella martoriata zona del Sahel che si protrae da anni tra vecchio terrorismo, disgregazione militare, traffico di esseri umani. La sensazione è che ci sia un filo stretto tra questi fattori e che l’uno giochi a sostegno dell’altro. Di fatto, Nigeria, Niger, Burkina Faso sono solo alcuni dei 16 Paesi dell’area colpiti da guerre, instabilità, carestie, in un’area vastissima che parte dalle coste mediterranee libiche e si spinge fin giù alla cosiddetta “linea del sale”, per commerciare esseri umani o i loro organi. E la pace vacilla anche oltre questo orizzonte se si pensa che nel pacifico Camerun sono scoppiate violenze in seguito alle rivendicazioni delle regioni anglofone, mentre proseguono le scorribande di Boko Haram. La speranza va alla vicina Algeria dove abbiamo assistito per mesi a proteste sempre e solo di stampo pacifico, dove però, dopo la caduta di Bouteflika, le manifestazioni non si sono fermate perché sono state forti le forze in difesa del sistema autoritario anche senza la presenza del presidente al potere da 20 anni.   

L’America Latina in rivolta contro le disuguaglianze  

       Un punto fermo in America Latina è il dramma del traffico degli stupefacenti e delle armi. E poi c’è una certezza: anche qui i trafficanti di essere umani, che “masticano” di geopolitica, si adattano alle situazioni, rimodellano i percorsi, ma non perdono il business. C’è stata l’emergenza delle carovane di migliaia di persone in fuga dagli Stati dell’America centrale verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Poi, la crisi politica e la crisi umanitaria in Venezuela - ormai il 90 per cento della popolazione si trova in condizioni di povertà o comunque di insicurezza alimentare - ha mobilitato milioni di persone sulla Ruta andina, la rotta verso Perù, Cile, Argentina. Si sono intrecciati fattori come la caduta del prezzo del petrolio e la resa dei conti per politiche che hanno affamato il grosso della popolazione. In tutto questo frangente, sono esplose proteste e rivendicazioni in un Paese dopo l’altro. E’ un grido ripetuto contro la corruzione e le ingiustizie sociali. E questo accade anche in un Paese come il Cile che consideravamo un’oasi di crescita economica, la Svizzera dell’America Latina. In realtà, rischiavamo di dimenticare un record: è fra i 14 Paesi con maggiore disuguaglianza al mondo. E anche qui, come in Bolivia, Ecuador, Repubblica Dominicana, etcetera, è scoppiato il malcontento. Anche in Colombia, a tre anni dalla firma finale dell’accordo di pace tra governo e il gruppo guerrigliero delle Farc - sottoscritto dopo 53 anni di conflitto – restano tensioni di carattere politico sociale e forti rivendicazioni contro le politiche economiche del presidente Ivan Duque. 

         In tutto questo l’America Latina è forse il continente dove si possono trovare le donne più “potenti” e, allo stesso tempo, più maltrattate, ma una speranza viene proprio dall’universo femminile. Sono state diverse le presidenti elette in vari Paesi – un numero molto più alto rispetto all’Europa – e allo stesso tempo prosegue l’escalation di violenze sessuali e soprusi. Negli ultimi anni l’Argentina e il Cile hanno dato vita a movimenti contro la violenza sulle donne, con interessanti flash mob e prese di posizione. Stessa cosa anche in Messico, dove si consuma la più silenziosa guerra civile al mondo con 95 omicidi al giorno e un tasso di impunità in alcune zone del 90 per cento.  Anche in Messico, Paese nel Nord America ma di cultura latina, le iniziative nella giornata internazionale della donna 2020 hanno registrato una partecipazione di massa mai vista.

23-03-2020
Autore: FAUSTA SPERANZA
Giornalista e Scrittrice
meridianoitalia.tv