Gianpiero Ruggiero

Dopo il Coronavirus dovremo ripartire. Non è retorica: ormai è evidente che Covid19 rappresenta un shock mondiale, previsto, ma che ha colto tutti impreparati. E dopo questa grande crisi, occorre aver subito chiaro un piano strategico per ripartire. Ricostruire, nel breve, un tessuto economico immettendo liquidità e salvando la “cassa”. Nel medio e lungo periodo ripensando alle fondamenta dell’economia e della società del futuro. In questi giorni molto si discute del piano di ripartenza economica, ma al tempo stesso il progetto di ripresa è poco chiaro. Cosa ci salverà in questa nuova normalità da costruire? Bill Gates, uno che aveva previsto l'arrivo dell'epidemia, ha dichiarato che ci vorrà almeno un paio di anni per tornare alla normalità. Ma che vuol dire tornare alla “normalità”, quali errori non dobbiamo commettere per tornare semplicemente quelli di prima?

Sull'orlo del precipizio

In questi giorni il Governo ha varato il Documento di Economia e Finanza 2020, dai numeri eccezionali, in una fase dell'economia italiana altrettanto eccezionale, mai come quest'anno da leggere con le dovute cautele a causa dell'aleatorietà dell'emergenza nei prossimi mesi. Rispetto alla Nadef pubblicata nel settembre 2019 il quadro macroeconomico italiano è stato chiaramente stravolto. Se le precedenti previsioni ipotizzavano una crescita per il 2020 pari allo 0,6% del Pil, il Def 2020 stima una caduta dell'8%: "Questa nuova previsione sconta una caduta del PIL di oltre il 15 per cento nel primo semestre ed un successivo rimbalzo nella seconda metà dell'anno. Il recupero del PIL previsto per il 2021 è del 4,7 per cento". Rispetto alle stime di altre istituzioni private, le previsioni del Def paiono conservative. Il Governo tuttavia mette in conto uno scenario pessimista e lo riporta poche righe dopo: "Il presente documento presenta anche uno scenario di rischio, in cui l'andamento e la durata dell'epidemia sarebbero più sfavorevoli, causando una maggiore contrazione del PIL nel 2020 (10,6 per cento) e una ripresa più debole nel 2021 (2,3 per cento), nonché un ulteriore aggravio sulla finanza pubblica". La situazione italiana è sicuramente più difficile degli altri Paese UE, ma in tutto il mondo il rischio di danni irreversibili è enorme, causa la montagna di debiti che si sta accumulando. Si pensi che negli USA ci sono già 26 milioni di persona a carico dello Stato, nell'Unione Europea siamo già a 30 milioni di persone. L'esempio cinese, di un Paese che prima di tutti ha contenuto i contagi e ha ripreso l'attività industriale, non è confortante. È vero che hanno riaperto le fabbriche, ma quello che manca è il “consumatore”, manca la domanda per ripartire. Uno stimolo alla domanda può arrivare dal sostegno pubblico, da investimenti infrastrutturali finanziati con risorse pubbliche. Le risorse messe a disposizione dalla BCE e dall'Unione Europea (Mes, Recovery Fund e il prossimo bilancio pluriennale) potranno aiutare a tamponare nel breve l'emorragia economica e sanitaria. Serviranno anche nel lungo periodo, in cui dobbiamo pensare anche alla sostenibilità ambientale e sociale, un tema che sembra al momento accantonato ma che diventa fondamentale per qualsiasi strategia di ripresa si vorrà intraprendere. A chi ancora si chiede cosa fa l'Europa per noi, andrebbe chiesto, mentre Fitch ci declassa e ci assesta un colpo durissimo, ingiusto, che vi avrebbe affondato se non ci fosse l'Europa e la BCE, cosa succederebbe se fossimo fuori.

L'alba di una nuova normalità

Su una scritta di un muro di Cuba qualcuno ha scritto che sarebbe meglio non tornare alla normalità perché la normalità è il problema. Partendo da questa constatazione, alcuni studiosi dell'economia sociale sono arrivati alla conclusione che è necessario rivedere i concetti economici degli ultimi venti anni. Abbiamo pensato, infatti, che la normalità fosse un flusso continuo di prosperità, di sviluppo, di progresso, in generale di miglioramento delle condizioni materiali. Questa sarebbe la normalità, mentre il fattore dell'anormalità è rappresentato dalle crisi, possibilmente circoscritte e ben confinate, da superare per tornare presto alla normalità. Da dopo il 1945 i periodi di normalità erano più duraturi rispetto a quelli di anormalità. E nel mentre si dotava il Paese di quegli investimenti infrastrutturali su cui ancora oggi contiamo. Quello che sta emergendo oggi è che la cosiddetta normalità a causare la crisi. Viene a galla una relazione tra normalità, fragile, un po tossica, e anormalità più diretta e frequente. Ora le crisi sono più frequenti ed è il modo in cui è costruita quella normalità a provocare quello che stiamo vivendo. Papa Francesco ci ha ricordato che “nella vita diventiamo ciò verso cui andiamo”. Una normalità costruita sulla necessità di avere une velocità sempre massima attorno a una esigenza di crescita continua, perpetua, inarrestabile, fa sì che qualunque shock esogeno (il covid) richieda una rallentamento della velocità dei flussi e delle transazioni, lo stesso shock rischia di mandare in crisi e in fallimento un sistema che dice di crescere da decenni. Stiamo toccando con mano le nostre fragilità: il nostro sistema ha costruito una normalità con grosse ingiustizie, disuguaglianze, con il collasso ecologico imminente, che ha generato di fatto un'anormalità. Non abbiamo costruito un sistema resiliente, dotato degli anticorpi in grado di resistere ai cambiamenti di velocità. Non dobbiamo permettere alla normalità tossica di inserire la marcia indietro e di colpo ritrovarci al sistema di prima. Questo perché dobbiamo uscire da una concezione lineare dell'avanti e indietro, che è alla base costitutiva della normalità tossica. Non esiste una sola direzione per andare avanti e una direzione per tornare indietro, il passato e il futuro non sono disgiunti. Esistono più prospettive di futuro, occorre recuperare queste pluralità di possibilità di futuro. Il sistema in cui siamo immersi ci da una sola possibilità di ripresa, quella di ricominciare a crescere. Si riscontra dall'istinto politico che sta emergendo. L'immissione di liquidità, sacrosanta e giusta, è prodroma a una ripresa delle attività secondo il modello di crescita precedente. Ma quando avverrà il prossimo evento di crisi, ci ritroveremo nella stessa situazione di oggi, dovendoci porre il problema di sopperire a una crisi di liquidità che è una crisi di ricavi. È il rischio che corriamo se agganciamo la prosperità a un solo indicatore, il profitto. Se non riusciamo ad avere un livello dei ricavi superiore a quello dei costi, il sistema non potrà mai reggere perché soltanto attraverso un valore aggiunto letto unicamente attraverso metriche finanziarie è il segnale che il sistema è in sviluppo. Ma quel segnale lì, da solo, è troppo insufficiente ed è troppo banale per descrivere  qualcosa di più ampio e più complesso che è il benessere e la qualità della vita. Per cui affidarci a quest'unico parametro, la lettura della metrica finanziaria del valore aggiunto, su scala micro (l'impresa) il profitto, su scala macro il PIL, è ritrovarsi in un'unica scia. Sarebbe preferibile aprire a una pluralità di dimensioni attraverso cui consideriamo e misuriamo il valore generato. Non c'è solo la scia finanziaria che va considerata, ma affianco a quella vanno considerate quantomeno altre due: il valore sociale e il valore ambientale che viene generato. Se cominciassimo a considerare, oltre al binomio profitto-PIL, anche l'impatto sociale (micro) e il benessere equo e sostenibile (macro) e nel sovranazionale negli SdGs, sarebbe la prima grande prova di maturità che avremmo colto da questa crisi. Perché domani, oltre l'urgenza immediata di liquidità, fare impresa significherà andare a rafforzare questi asset nascosti dietro i concetti di valore sociale e ambientale. Ecco perché diventa importante decidere dove mettere le risorse, le teste e cuori, per poter costruire futuro; dove è possibile dare una possibilità di crescita al Paese.

Il futuro con lenti di un nuovo caleidoscopio

Innovazione e sostenibilità sono alleate? Per rispondere a questa domanda dobbiamo considerare che l'imprenditore medio, che lotta per la sopravvivenza della sua impresa, già deve combattere contro la burocrazia e fare i conti, contestualmente, con un mercato con bassi livelli di integrazione e innovazione. Molte piccole e media imprese, di fatto, non hanno i muscoli per competere nel mercato nazionale e internazionale. Gli sarebbe davvero difficile aggiungere anche la sfida della sostenibilità. Rischierebbe l'estinzione definitiva messo di fronte a queste tre grandi sfide. Gli imprenditori vanno messi nelle condizioni di giocare la partita. Nel breve termine, tra due imprese, una che decide di sposare la svolta green della sostenibilità e l'altra che decide di non farla, avrà risultati migliore chi sceglie di non muoversi, chi sceglie lo status quo. Sarebbe più vincente chi decide di non fare alcun investimento. Perché chi decidesse di fare investimenti di sostenibilità ambientale e sociale avrebbe costi produttivi più alti. Se gli incentivi economici erogati dalle PA in favore delle imprese sono identici, prevarrà sempre la scelta di non effettuerà la transizione verso un'economia circolare. La singola impresa che compete, da sola, a meno che non sia un monopolista, non può farsi carico di apportare pratiche di sostenibilità. Ecco allora che diventa importante costruire incentivi intelligenti a favore di quella parte di imprenditori che si indirizzano verso l'adozione dei modelli di sostenibilità ambientale e sociale. Come? Condizionando l'accesso alle risorse pubbliche anche a delle primissime e primordiali evidenze di aderire a schemi che mettano insieme il valore economico, ambientale e sociale. Costruite politiche pubbliche per aiutare le imprese a compiere una svolta del proprio modello di sviluppo, che affianchino la prosperità economica a impatti positivi sull'ambiente e sul territorio.

Rosetta Moss Kanter nel suo recente libro, Think Outside the Building, ha spiegato bene che la crisi del coronavirus e l'interruzione economica che ne è seguita ha sottolineato l'importanza di un tema importante, la chiara interdipendenza del sistema; è impossibile rimanere all'interno di ogni silo o settore o azienda e sperare di nascondersi da cose che accadono al di fuori delle mura presumibilmente separandone uno dagli altri. Abbiamo di fronte la complessità di un nuovo sistema da costruire, fatto di capitale intellettuale, capitale sociale e capitale finanziario. È come un caleidoscopio: prendere pezzi esistenti, scuotere il caleidoscopio e fare in modo che i frammenti formino uno schema diverso. Mettiamo insieme questi tre elementi e forse possiamo creare qualcosa di nuovo. L'unica cosa che certamente non possiamo fare è tornare “quelli di prima”. Tornare a una normalità che ha al suo interno le cause e le concause di questa tragedia sarebbe un suicidio collettivo. L'architetto Stefano Boeri, in una intervista rilasciata a Repubblica, ha lanciato l'idea di un grande progetto nazionale di riqualificazione di paesi e piccoli centri abbandonati. Dall'associazione dei Borghi più belli d'Italia, dall'Unione nazionale Comuni, Comunità ed Enti montani (Uncem) e dall'Associazione Borghi autentici arriva lo stesso messaggio: via dalle città, nei vecchi borghi c’è il nostro futuro. Il punto, sottolineano le due associazioni, è che la rivitalizzazione dei borghi è centrale non soltanto in tempi di emergenza e necessita di un grande piano nazionale. 

"Che il futuro sia nei borghi come dice Stefano Boeri - dice Marco Bussone, presidente di Uncem - è essenziale nella logica del risparmio del consumo di suolo, dell'efficienza energetica, di una rifunzionalizzazione degli spazi, di economie circolari che sappiano dare risposte alla crisi climatica e non soltanto alla crisi della pandemia che stiamo affrontando".

30-04-2020
Autore: Gianpiero Ruggiero
Esperto in processi di innovazione presso la Cabina di Regia “Benessere Italia”
meridianoitalia.tv

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