Francesco M. Renne
I RISCHI PER LA SOSTENIBILITÀ FINANZIARIA, LA RISPOSTA ALLA CRISI, LA DIMENSIONE EUROPEA E UNA PROPOSTA CONCRETA
Una premessa
Scrivere su “cosa fare” per far ripartire l’economia italiana a seguito dell’attuale situazione, significa tener conto anche della tenuta sociale, oltre che di quella economica, del Paese.
Diventa quindi ineludibile “prima” affrontare, nella trattazione, l’onda incrociata dovuta al sovrapporsi dell’eccesso di debito pubblico, già esistente ante crisi sanitaria scaturita dalla diffusione del Covid19, con l’incombere della (grave) recessione conseguente alle misure di contenimento, qui come altrove, adottate per cercare di salvare il maggior numero di vite umane possibile. Solo “poi”, come naturale prosecuzione del ragionamento, proporre qualsivoglia misura economica.
I rischi e il fabbisogno
Un primo tema consiste nei rischi di tenuta finanziaria del bilancio pubblico. Da un lato, esiste il problema della copertura del maggior deficit 2020 che si andrà a realizzare sommandosi al fabbisogno di finanza pubblica già programmato. Dall’altro, esiste il problema legato ai possibili downgrading delle Agenzie internazionali che valutano la sostenibilità del nostro stock di debito. In entrambi i casi, come facilmente intuibile, un ruolo centrale viene giocato dalla BCE.
Il recentissimo annuncio del ministro Gualtieri, a cavallo dell’approvazione del DEF in Consiglio dei ministri, è emblematico: uno scostamento di ulteriori 55 miliardi e una caduta prevista del PIL pari all’8%, porteranno nel 2020 a registrare una crescita dell’indebitamento netto (i.e. deficit) intorno al 10,4%. La stima del Governo si pone all’interno della forbice delle precedenti stime esterne; ad inizio della crisi epidemiologica si era parlato di una caduta del PIL al 6,2% mentre le più recenti stime del Fondo Monetario Internazionale parlano di una caduta del 9,1%.
Con tali dati, il rapporto fra debito pubblico e PIL si dovrebbe attestare intorno al 155% a fine 2020. Il fenomeno dell’incremento straordinario di tale parametro sarà comune a tutta l’economia internazionale e se è pur vero che, probabilmente, come ha scritto l’ex Governatore Draghi, dovremo abituarci a “un maggior livello strutturale di indebitamento nelle nostre economie”, il nostro Paese “parte” da un valore già tra i più elevati e “subisce” un giudizio di rating già fin troppo vicino al discrimine con livelli “junk”. Nel 2020, stando a quanto programmato ante emergenza epidemiologica, l’Italia deve rifinanziare con nuove emissioni circa 255 miliardi, a cui dovranno aggiungersi gli stanziamenti legati alla decretazione di emergenza; il che, secondo le stime, porterebbe a un totale di fabbisogno lordo 2020 da coprire per circa 420/440 miliardi di euro.
A questo primo problema si aggiunge, sotto altro profilo, quello del giudizio delle Agenzie di Rating internazionali. Superato il primo scoglio di S&P (venerdì 23 aprile ha lasciato invariato il giudizio a BBB con outlook negativo, sostanzialmente come quello confermato da Fitch a febbraio scorso), i
prossimi “appuntamenti” sono fissati a maggio per Moody’s (ad oggi quello più basso) e DBRS, per poi ripresentarsi nuovamente a scadenze semestrali. La questione di fondo è tutt’altro che solo formale. Un declassamento ulteriore di uno (per Moody’s) o due (per le altre Major) gradini, collocherebbe il nostro debito pubblico non più, come ora, nella classe “investment grade” bensì nella classe “speculative grade”, con l’effetto di “uscire” dalle policy di investimento degli attori istituzionali (banche, fondi di investimento, casse pensioni) sia esteri che italiani. Difatti, per ragioni di risk management interno e delle regolamentazioni per la tutela del risparmio dei propri clienti, questi soggetti hanno obblighi di definire il profilo massimo di rischio in cui poter investire i capitali gestiti e, come di facile intuizione, il discrimine è per prassi quasi sempre posto al limite inferiore della classe “investment grade”. È facile dunque comprendere la “portata” di un tale evento.
La BCE si è fortunatamente mossa con anticipo, rispetto a questa possibilità (che, beninteso, potrebbe occorrere anche ad altri Paesi, minori del nostro, dell’area Euro), avendo deciso di continuare ad “accettare” – sia nei suoi programmi di sostegno ai debiti sovrani dell’area Euro, sul mercato secondario, che nei programmi di rifinanziamento delle banche europee per il tramite di garanzie prestate attraverso titoli sovrani – titoli del debito pubblico dei Paesi membri anche ove il giudizio di rating comportasse un declassamento a “speculative grade”. Ma tale contromossa, da sola, non è sufficiente a calmierare l’effetto sui mercati finanziari nel caso ciò avvenisse.
Ecco perché diventa di grande interesse la definizione della partita europea e l’accesso a talune misure che favorirebbero la possibilità per la banca centrale di incrementare ulteriormente, rispetto a quanto non già fatto, le quote di detenzione del nostro debito pubblico.
La sostenibilità del sistema economico di fronte alla crisi
Un secondo tema, non meno (se non, sotto il profilo sociale, addirittura più) importante, consiste negli effetti temporali della crisi dell’economia reale. Se, infatti, è facile intuire come ora vi sia – per le famiglie e per le imprese – un contingente problema “di liquidità”, è meno intuitivo comprendere come il “vero” scoglio che dovrebbe preoccuparci si materializzerà nel prossimo autunno, legato al tema delle sofferenze bancarie che rischieranno di esplodere.
Il problema della liquidità nasce per effetto sia del lockdown imposto a molte attività, con la conseguente attivazione della cassa integrazione e dei sussidi agli autonomi (non senza problemi burocratici e ritardi, per entrambe le misure) e sia della, anch’essa conseguente, interruzione tanto delle catene di pagamenti delle scadenze commerciali nei rapporti fra imprese, quanto degli ordinativi nelle filiere produttive locali ed internazionali (per le quali si è intervenuti con la riapertura delle moratorie generalizzate sulle rate di finanziamenti e leasing e sancendo il divieto di revoca degli affidamenti in essere).
Il problema che si profila per quest’autunno (oltre ai già citati nuovi appuntamenti con le agenzie di rating) ove non si intervenga normativamente, è che al termine del periodo di “sospensiva”, le imprese che si presenteranno con dati deteriorati, di bilancio e “andamentali” (come è facile intuire, soprattutto per le attività economiche più piccole e quei settori o aziende che già avevano problemi finanziari), rischieranno di subire riduzioni e revoche di affidamenti o comunque di veder scattare per loro le regole di forbearance (in sintesi, per ciò che qui interessa, un obbligo di monitoraggio più assertivo e costante e accesso a nuova finanza condizionato nel tempo e al recuperi dei ratio di bilancio). Entrambi i fronti – maggiore tensione finanziaria e/o maggiore
rigidità nell’accesso a nuove fonti – comportano, nelle condizioni di maggiore irrecuperabilità, il rischio tangibile di default. Ecco perché, come vedremo, il sostegno alla ripresa passa (anche) per il potenziamento delle misure – già previste nel decreto Liquidità – di accesso a “nuova finanza”.
Le soluzioni devono essere praticabili
Orbene, occorre dunque trovare risposta contemporaneamente ad entrambi i temi fin qui descritti, legati fra loro dal bilancio pubblico. Infatti, il tema di “quante” risorse siano effettivamente destinabili a sostegno della ripresa da parte dello Stato (i.e. incrementando i fondi di dotazione delle garanzie del Fondo PMI e della Sace, identificati dal Governo come strumenti attuativi dei programmi finanziari deliberati) è direttamente proporzionale ai passaggi parlamentari (tuttora in corso) delle autorizzazioni allo scostamento di bilancio e ai passaggi europei (anch’essi in corso) che dovranno sbloccare il pacchetto di aiuti per reagire agli effetti economici della pandemia. E occorre però che queste risposte siano anche “praticabili” e il più possibile veloci (ed efficienti), senza rincorrere opzioni irrealistiche o irrealizzabili, spesso costituite da “scorciatoie” improponibili. Quindi, per essere espliciti, opzioni estranee ai trattati già in essere, che normano (e condizionano) il framework delle regole finanziarie europee, come “helycopter drop”, “monetizzazione” del debito, “Italexit” ed altre simili, hanno il difetto – oltre che della loro (eufemisticamente, per chi qui scrive) dubbia convenienza nel tempo, ciascuna di queste per motivi diversi – di una tempistica di realizzazione (consenso, oggi impensabile, fra i Paesi membri; tempistiche attuative del cambio dei regolamenti e/o di “uscita” dall’euro e dalla UE) troppo lunga, in un momento contingente dove, come si è già ricordato, il “fattore tempo” è invece di vitale importanza.
La dimensione europea
Quanto alla “dimensione europea” del problema, va detto che le “istituzioni”, Commissione e BCE, hanno reagito velocemente al mutato contesto (non però senza qualche errore di comunicazione, talvolta, con il conseguente conto salato sui mercati finanziari). La prima, sospendendo giustamente, stante lo stato di eccezionalità della situazione, il Patto di Stabilità, consentendo maggiori flessibilità di bilancio e, quindi, deficit annuali 2020 superiori alla fatidica soglia del 3%. La seconda, introducendo il programma PEPP per 750 miliardi e riaprendo una nuova finestra di QE per circa 300 miliardi, intervenendo così sul mercato dei titoli di Stato “superando” il vincolo del “capital key” preesistente (limite massimo di acquisti proporzionale alle quote di capitale sottoscritte), nonché garantendo costante liquidità al sistema bancario dell’eurozona.
Il “ritardo” della risposta sugli “aiuti” è dovuto essenzialmente alle specificità di priorità e interessi diversi fra i singoli Paesi membri, che hanno tardato a trovare una composizione degli equilibri e, quindi, a definire il pacchetto di misure da introdurre. Prima sotto il profilo tecnico, in sede di Eurogruppo la settimana prima di Pasqua, poi con il placet politico, al Consiglio europeo di giovedì 23 aprile, si è arrivati alla conferma della composizione del “pacchetto” di aiuti. Ora, il SURE, sostegno per cassa integrazione e ammortizzatori sociali, per 100 miliardi e i fondi BEI, dedicati principalmente alle garanzie per l’accesso al credito delle PMI europee, per 200 miliardi, si aggiungono ai 240 miliardi della ”nuova” linea del MES, senza “condizionalità” all’accesso e vincolata nella destinazione al sostenimento della spesa sanitaria, sia strutturale che per cure e prevenzione, attivabile solo su richiesta formale espressa e per un importo massimo di circa il 2% del PIL di ciascun Paese richiedente. Ma il vero asse portante del “pacchetto” è l’accordo per la
costituzione del Recovery Fund, strumento per sostenere la ripartenza dell’economia europea e investimenti strutturali in determinate aree e settori economici. Nelle more della definizione dei dettagli tecnici, dovrebbe poter ricorrere ad “emissioni comuni” e mobilitare fondi per circa 1500/2000 miliardi nell’arco dei prossimi mesi, più probabilmente a cavallo dell’autunno.
Questioni nominalistiche (sul MES e sugli Eurobond) della nostra politica a parte, appare un compromesso sufficiente, in termini di efficacia e di tempistica attuativa, nel presupposto che si inizino ad utilizzare le risorse già disponibili, nelle varie forme tecniche descritte, in attesa della strutturazione operativa del Recovery Fund e della liberazione delle risorse che raccoglierà. Resta però ancora aperta la (vera) partita europea che andrà giocata.
Da qui a un anno, quando si riattiverà il Patto di Stabilità, tutti i Paesi dell’Eurozona avranno un debito più elevato. Si è già citato Draghi, sul punto, all’inizio del presente scritto; nella sua lettera al Financial Times sostiene, in sintesi, tre cose (una europea e due nazionali): si apre una stagione di debiti pubblici più elevati, si devono usare garanzie pubbliche per sostenere l’accesso al credito, si dovrà assorbire nel tempo la quota di debito privato non rimborsabile. Dei secondi due aspetti, ne parliamo qui di seguito; il primo, però, merita attenzione poiché (per chi qui scrive) esprime la (vera) partita che andrà giocata (fin da subito) in Europa, data dalla possibile rinegoziazione (con effetti più favorevoli per noi) dei parametri del Patto di Stabilità, magari passando da una valutazione puntuale di deficit e debito in rapporto al PIL a una valutazione “dinamica” della sostenibilità finanziaria di un Paese rapportando la variazione dell’indebitamento con la variazione del PIL e, anche, tenendo conto del rapporto debito/ricchezza della sfera privata.
La dimensione operativa
Per completare il discorso, sul versante operativo, invece, occorre da un lato puntualizzare una differenza sostanziale, foriera di molti equivoci dialettici, soprattutto in questi giorni di emergenza e, dall’altro, provare, in conseguenza di ciò, a definire un percorso concretamente attuabile che consenta di massimizzare i primi interventi del Governo, muovendosi nel solco delle parole di Draghi prima sinteticamente richiamate.
In prima battuta, va quindi ribadita la differenza sostanziale fra opzioni di “ristoro al reddito” dei cittadini (o di una loro parte, in base alle situazioni di necessità e delle risorse disponibili) e opzioni di “sostegno alla ripartenza” dell’economia (e, quindi, sostegno alle imprese affinché riassorbano occupazione, evitando che la cassa integrazione si trasformi in perdita del lavoro).
Il “ristoro al reddito” è, per sua natura, temporaneo e a fondo perduto; grande o piccolo che sia l’ammontare (varia al variare dei Paesi in funzione dello spazio di Bilancio pubblico e dell’erogazione in una volta sola o su base mensile), è ciò che si è cercato di fare con l’ampliamento (per settori e per durata) della cassa integrazione e (con minor successo) con i sussidi agli autonomi e al mondo professionale.
Il “sostegno alla ripartenza” dell’economia è tutt’altro, per obiettivi e per cifre in gioco; è “innescare” un circuito virtuoso per riprendere investimenti e assorbimento di capitale circolante, è far ripartire gli ordinativi delle filiere e rimettere in uso i macchinari, è il riassorbimento di forza lavoro e la riorganizzazione dei modelli di business che dovranno adeguarsi alle mutate condizioni di mercato e, nondimeno, di prevenzione sanitaria. Non può (se non in settori specifici ove il mercato non potrà recuperarsi per definizione ovvero in settori ritenuti strategici per il Paese ove
necessitano investimenti particolari privi di marginalità economica; e comunque per importi limitati) essere attuato con forme di sussidi a fondo perduto. Occorre necessariamente la leva del credito.
Per dare un’idea delle dimensioni, per reagire alla crisi finanziaria del 2008 la Cassa Integrazione ha assorbito risorse per circa 14 miliardi; i volumi di credito che il Governo intende mobilitare per reazione alla crisi attuale si attestano a circa 400. Un rapporto di quasi 1 a 30.
Quindi, cosa si potrebbe fare? Lo schema individuato dal Governo (garanzie per l’accesso al credito) – al netto di talune necessarie correzioni attuative in sede di conversione del Decreto, di taluni ritardi burocratici e interpretativi che dovrebbero risolversi nel corso delle prossime settimane e della necessità di incrementare le garanzie allocate (una volta risolti i passaggi parlamentari ed europei già richiamati prima) – si muove nella giusta direzione, ma andrebbe (secondo chi qui scrive) ulteriormente migliorato.
La proposta del matusalem financing
In prima approssimazione, mutuando la denominazione dai “matusalem bond” emessi anni fa sui mercati finanziari, occorrerebbe ragionare in ottica di “matusalem financing”, ovvero di allungamento delle scadenze finanziarie legate alla risposta alla crisi economica attuale, implementando regole specifiche di “gestione” di quei crediti post emergenza e un bilanciamento fra il principio della “remissibilità residuale” e il rischio di “moral hazard” conseguente.
Ma andiamo con ordine.
Preliminarmente occorrerebbe concordare in sede UE delle specifiche deroghe alla normativa degli aiuti di Stato, in tema di livello di garanzie concedibili e di durata dei prestiti alle imprese. Non semplice, ma in questo “clima” di reazione all’emergenza e dato che non comporta un maggior impegno finanziario, non impossibile. Si immagini, per semplicità (beninteso, le condizioni qui descritte potrebbero anche essere modificate nel dettaglio, ma il senso non muterebbe), uno scenario di garanzie al 100% e durata a trent’anni con due anni di preammortamento. E, ovviamente, una scadenza dei finanziamenti ottenuti dallo Stato a sostegno delle misure di ripartenza (i.e. dal Recovery Fund, per la parte destinata specificamente alle garanzie) di pari durata.
Lato imprese, queste beneficerebbero tutte di un preammortamento congruo (2 anni) e di una durata lunga che consentirebbe loro di ridurre lo sforzo finanziario aggiuntivo, rispetto all’attività ordinaria, dato dalle rate di rimborso nel tempo. Le risorse ottenute al momento della concessione del credito possono dunque essere utilizzate più serenamente per riattivare i pagamenti arretrati ai fornitori, per sostenere il costo del lavoro così da riassorbire il personale dalla cassa integrazione e per investimenti in capitale circolante e/o capitale fisso, senza che vi sia un eccessivo appesantimento degli esborsi finanziari. Rispetto agli attuali sei anni (4 di rimborso, con due di preammortamento), la scadenza a trent’anni (28 di rimborso) vuol dire minori esborsi annui pari a sette volte; il che, per effetto della regola dell’assorbimento dei flussi di cassa – per la quale si dovrebbe sempre preferire, fra due alternative di finanziamento, quella con il minore assorbimento di flussi attualizzati netti – vuol dire, a parità delle altre condizioni, minore rischiosità dell’azienda.
Lato banche, queste beneficerebbero di una garanzia piena (o, se inferiore, integrabile anche da coperture assicurative, con apposito schema di intervento, oltre che dal normale ricorso ai confidi) che ne ridurrebbe l’assorbimento del patrimonio di vigilanza, agendo come mitigatore dell’esposizione al danno in caso di default del prenditore, oltre che di avere clientela che in tal modo avrebbe più chance di sopravvivere nel tempo, garantendosi – accettando un calmiere sulla remunerazione del prestito “matusalem” – maggior tenuta dei flussi commerciali ordinari dei singoli prenditori nel tempo. Inoltre, potrebbero procedere ad operazioni di cartolarizzazione, recuperando così nuova liquidità e creando un mercato secondario di appositi basket di crediti contro garantiti, ideale per investitori come assicurazioni e fondi pensione, che potrebbero così contribuire con loro risorse alla ripartenza dell’economia reale mantenendo una calmierazione del rischio.
Lato Stato, ci sarebbero tre vantaggi sostanziali. Il primo è che, a parità di importi allocati nel bilancio pubblico, al momento della dotazione delle garanzie (che, va ricordato, sono una frazione dei 400 miliardi mobilitati e dichiarati come target dal Premier), l’allungamento delle scadenze tende – per quanto detto prima – ad aumentare la fetta di imprese che riuscirà a completare i rimborsi, riducendo complessivamente, oltre che diluendole ulteriormente nel tempo, le escussioni delle garanzie prestate (e quindi le perdite a carico del bilancio pubblico). Il secondo è che il funding delle risorse, destinate a questo specifico utilizzo, verrebbe negoziato oggi a tassi agevolati (attingendo dai fondi dell’istituendo Recovery Fund) con una durata altrettanto lunga così da incidere meno sul fabbisogno finanziario statale dei primi anni. Il terzo è che, attraverso apposita spv a partecipazione pubblica (di cui si dirà più oltre) che “gestirà” le fasi di eventuali insolvenze (i.e. transazioni concordatarie, prima che i default divengano conclamati e irreparabili) e attraverso l’applicazione del principio di “remissibilità residuale”, otterrebbe un formidabile strumento di mediazione pubblico-privato di politica industriale, che consentirebbe un’ulteriore riduzione del peso delle escussioni delle garanzie.
Il principio della “remissibilità residuale” è l’altro cardine (oltre a quello della durata) del “matusalem financing”. Si immagini, come detto, cosa potrebbe accadere nel tempo: una parte delle imprese, probabilmente maggiore che con l’attuazione solo dei finanziamenti a sei anni, completeranno la fase di rimborso, possibile anche anticipatamente su richiesta dei prenditori; un’altra parte, nel tempo, incontrerà difficoltà nella continuità aziendale, ricorrendo alle procedure di crisi d’impresa (i.e. nelle varie forme ipotizzabili) richiedendo allungamenti ulteriori del termine o transazioni parziali a saldo e stralcio ovvero conclamandosi la condizione di default. In relazione a questa seconda parte di imprese, interverrà come “unico interlocutore” per Stato, Fondo PMI, Sace e singole Banche originariamente eroganti (in relazione al solo finanziamento “matusalem”) la spv a partecipazione pubblica (adattata al nuovo contesto sulla scia delle esperienze di SGA, per chi volesse approfondire) che agirà secondo il principio della minimizzazione del danno (i.e. tempo e valore di escussione garanzie), attraverso il diniego e/o l’accettazione di appositi accordi transattivi giudiziali o meno, nonché, nei casi di irreparabilità conclamata, secondo il principio appunto della “remissibilità residuale”. Questo sottende che, a parità di “perdita” per lo stato, derivante dall’irreparabilità dell’insolvenza, vi possa essere remissione del debito residuo invece che il fallimento dell’impresa, contribuendo al suo mantenimento in vita, purché condizionato al diligente comportamento dell’imprenditore o dei suoi organi sociali.
Per questo motivo, il “matusalem financing” presupporrebbe come condizionalità, nel “durante” della vita del prestito (a tutela degli investitori, ove cartolarizzato, ovvero in caso di successivo intervento della spv a partecipazione pubblica), il rilascio di attestazioni periodiche da parte di un soggetto professionale terzo (i.e. un commercialista slegato da rapporti con l’azienda e i suoi organi sociali, di nomina esterna e a rotazione triennale per evitare l’eventuale insorgere di conflitti di interesse nel tempo) del rispetto dei requisiti individuati dalla norma speciale in commento (a titolo indicativo: nessun utilizzo estraneo all’azienda delle somme erogate; mantenimento del divieto di distribuzione dei dividendi e di restituzioni ai soci; alert dagli organi sociali sugli indicatori della crisi; verifica di eventuali covenants infrannuali negoziati in sede di erogazione ovvero di specifici accordi sindacali connessi; et simili). Il rispetto nel tempo, di dette condizionalità, diverrebbe così per l’impresa il requisito per l’accesso al regime di “remissibilità residuale” delle rate eventualmente impagate, ovviamente bilanciandolo – per prevenzione del “moral hazard” – con norme incrementative delle pene ordinarie nei casi di dolo eventualmente emergenti nelle informazioni date o nei comportamenti tenuti.
Solo per completezza di trattazione, vi sarebbero poi altre previsioni normative minori, da implementare, pur in questa sede di minor interesse, legate al coordinamento con le norme in tema di ipotesi di bancarotta preferenziale, in tema di ipotesi di reati nella concessione dei crediti, in tema di funzionamento della spv a partecipazione pubblica, in tema di possibilità di riacquisto del credito da parte dell’imprenditore tramite lo strumento dei mezzanini (i.e. prestiti partecipativi) per favorire la ricapitalizzazione dell’impresa nonché, infine, di agevolazioni agli interventi degli operatori di venture capital e private equity.
L’esigenza di una fiscalità per la ripartenza
Infine, non va sottaciuto che per favorire la “ripartenza”, facendo in modo che poggi su basi solide, la leva fiscale – usata per obiettivi specifici e stabili nel tempo – è strumento di sicuro interesse. Senza entrare nel merito di una riforma complessiva del nostro sistema fiscale, che pur necessita di rilevanti rivisitazioni migliorative, si intende qui solo tratteggiare i tre filoni principali che (a parere di chi scrive) si ritengono interessanti per connessione tematica.
Il primo attiene all’introduzione di un regime innovativo di agevolazione per tutte le filiere produttive che adottino processi/prodotti ad alta sostenibilità ambientale, riconvertendo la filiera produttiva. Ciò, peraltro, in piena coerenza con gli obiettivi della Commissione UE recentemente insediata e tenendo altresì conto che la sua implementazione attiene a una dimensione europea. La proposta consiste, attraverso apposite autorizzazioni comunitarie (temporanee o definitive, a seconda dei casi), rilasciate su domanda degli interessati, nell’eliminazione dell’IVA sui prodotti finali “ecologici” per i consumatori finali nonché per tutta quelle aziende di trasformazione e/o produzione che riconvertano i propri processi e/o impianti, tendendo alla crescita della sostenibilità ambientale e adottando volontariamente le informative ai terzi statuite per il bilancio sociale. Agendo sulle norme di esenzione IVA nella Direttiva comunitaria e vincolandone l’applicazione alle autorizzazioni (e ai successivi controlli) a livello europeo, non scatterebbero le specificità delle limitazioni per gli aiuti di Stato.
Il secondo, sempre con dimensione europea, attiene alle modifiche della Direttiva ATAD sulle limitazioni alla deducibilità degli interessi passivi e all’introduzione di un meccanismo di ACE (i.e. aiuto alla crescita economica) a livello europeo, analogo alla omonima norma italiana, che riduce il
carico fiscale al crescere della capitalizzazione delle imprese (utilizzando anche soggetti istituzionali di venture capital e private equity ovvero processi di aggregazione fra imprese). Allentare l’indeducibilità degli interessi passivi, in un momento di sostanziale ricorso indotto al credito teso a favorire il riassorbimento di forza lavoro e della ripresa dei pagamenti commerciali, appare mossa del tutto coerente (e doverosa). Di converso, premiare il ricorso alla ricapitalizzazione consentirebbe, per chi vi acceda, di riequilibrare la situazione patrimoniale in termini di sostenibilità del mix delle fonti finanziarie, tra mezzi propri e indebitamento.
Il terzo, scendendo a livello nazionale, attiene al riequilibrio dei poteri nella macchina fiscale italiana. Oggi esiste un eccesso di concentrazione di funzioni, potenzialmente distorsivo, nel binomio MEF / Agenzia delle Entrate (soprattutto dopo l’incorporazione, da parte di quest’ultima, della vecchia Equitalia). Nei fatti, interviene nella decretazione d’urgenza, nella fase di stesura della normativa secondaria e nella fase interpretativa, nelle fasi di programmazione degli obiettivi di gettito e nelle fasi di accertamento, nelle fasi di interpello, nelle fasi di adesione e mediazione, nelle fasi di transazione, nelle fasi di escussione e persino nel coordinamento dei garanti dei contribuenti (attivabili avverso il suo operato). Stante le ripetute violazioni del pur esistente Statuto del Contribuente, che sconta il non avere rango costituzionale (e che difficilmente potrà raggiungerlo), appare necessario individuare una forma di riequilibrio che consenta oggettiva terzietà (in alcune di quelle fasi) e vera prevenzione della fase processuale. Ciò sarebbe possibile, a sostanziale parità di costi per lo Stato, con l’istituzione di un’Authority di Garanzia terza che assorba le funzioni (e l’organico) legate agli interpelli (effetto preventivo), alle mediazioni (effetto deflattivo) e al coordinamento dei garanti dei contribuenti (effetto deterrente), rafforzandone i poteri di intervento. L’indipendenza dell’organo di indirizzo di detta Authority potrebbe altresì essere ottenuta da Commissari in numero paritetico scelti fra membri dell’Amministrazione, da un lato, e delle Professioni e dell’Accademia, dall’altro. Una garanzia di sistema, dunque, per riequilibrare lo sbilanciamento nel rapporto fisco-contribuente, che tutelerebbe meglio i contribuenti onesti, a doverosa parità di libertà d’azione contro i soggetti evasori.
Una (prima) conclusione
Queste sono le linee di intervento che (a parere di chi scrive) necessiterebbe introdurre a sostegno della ripresa, affinché si innesti un circuito virtuoso teso a favorire accesso (sostenibile) al credito, recupero di occupazione e nuovi investimenti. A patto che, questo è ovviamente l’auspicio, i rischi legati alla sostenibilità finanziaria del sistema-Paese, di cui all’incipit di questo scritto, siano condivisi, monitorati ed efficacemente gestiti.