di Elisabetta Maria Piro
In un recente intervento al Social Summit di Oporto, Mario Draghi si è fatto portavoce di alcune istanze che testimoniano la preoccupazione e sensibilità del premier verso i temi del sociale e del lavoro: un aspetto, questo, lasciato spesso in sordina dalla macchina multimediale, che descrive l’economista romano come uomo di solide competenze e indiscusso prestigio, ma sovente troppo contiguo, sul piano culturale, agli ambienti della finanza e del pensiero neoliberista.
Dinanzi agli altri 27 capi di stato della Ue, il Presidente del Consiglio ha raccomandato di proseguire nei programmi di sostegno all’occupazione e negli stimoli di bilancio, poiché a causa della pandemia ci sono troppe imprese e lavoratori in sofferenza. Un’apertura, insomma, alla ricette di rilancio keynesiane dell’economia, che strizza l’occhio anche a quanto accade oltreoceano, alle misure di espansione promosse dall’amministrazione Biden.
Troppo presto, certamente, per un giudizio di valore sul politico e sull’uomo. È sempre necessario che dalle dichiarazioni si passi alle azioni, le quali, peraltro, non dipendono solo da Draghi ma anche dagli altri capi di stato dell’Unione: un consesso che fatica, tuttora, a trovare il suo baricentro quando il menu da digerire è quello dei sostegni fiscali e monetari alle economie in difficoltà.
La parte più interessante del suo discorso, riguarda, però, l’attenzione che ha riservato ai fenomeni di discriminazione sui mercati del lavoro. Il Presidente parla di “sistema binario”, a doppia velocità. Da una parte i lavoratori privilegiati, perlopiù maschi, in età matura, ben retribuiti e collocati in posizioni sicure. Dall’altro giovani e donne abbandonati alla disoccupazione o sottoccupazione strutturale, sfruttati ma, più spesso, “ auto sfruttati “, a prescindere dai livelli di istruzione e abilità acquisiti, perché una parte importante del mercato funziona proprio così: seleziona solo le persone disposte a sacrificare sistematicamente le altre prospettive esistenziali (figli, relazioni, cultura, svago, ecc.) sul piano di una concorrenza spietata con i propri simili nell’attesa, di una possibile, ma altamente improbabile, redenzione nel “paradiso dei privilegiati” ove la competizione bruciante sembra non esistere e lo stipendio è garantito a vita.
Su questo assetto di cose, gli economisti si sono espressi in molte occasioni: la concorrenza è salutare quando non esistono barriere, frizioni o altri impedimenti che generano universi o pianeti a doppia trazione: deve esserci, moderatamente, ma per tutti e soprattutto deve sussistere con maggiore intensità ai piani alti del mondo economico e produttivo, ove la curva dei rendimenti marginali cresce più ripida e non a quelli bassi. Complice certamente la pandemia, assistiamo, invece, ad uno scenario in cui non solo donne e giovani, ma anche intere categorie come quelle dei piccoli imprenditori e delle libere professioni, debbono affidarsi alla svalorizzazione dei propri corrispettivi per sopravvivere in mercati asfittici, ove imperano le multinazionali del consumo e dei servizi in una lotta all’ultimo osso che è chiaramente impari sin dall’inizio. Il punto è se possiamo permetterci di affidare ancora una, dieci, mille altre generazioni di cittadini alla selezione della fortuna, del caso, delle parentele e conoscenze: proteggere i più fortunati, in una evidentemente perversa interpretazione del motto evangelico: a chi ha sarà dato a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.
Mario Draghi ha detto no, i mondi paralleli non gli piacciono e ci fa piacere sentire questo. Tutti debbono competere ad armi pari per accedere alle migliori posizioni e tutti debbono godere di un sistema di protezione, siano essi giovani, donne, lavoratori dipendenti o autonomi. Per sua fortuna, il Premier non deve partire da zero. Consolidare l’agenda del Reddito di Cittadinanza , già avviata dal precedente esecutivo Conte, per esempio, e stabilire una efficace rete di ammortizzatori per professionisti e autonomi, come peraltro è già in programma di fare. C’è però un aspetto che mi sembra negletto alquanto in tutto l’attuale dibattito sul lavoro e che invece aveva registrato una minima ma significativa attenzione durante la presidenza di Giuseppe Conte, in relazione alla riforma degli uffici dell’impiego: a chi inviare il proprio curriculum? Come segnalare la propria disponibilità ai potenziali interessati?
Qualunque persona in cerca di occupazione, avrà sicuramente sperimentato il curioso e alla lunga defatigante sistema di selezione dei posti disponibili che si è venuto affermando nell’epoca del web e dei social. In buona sostanza, sono sempre meno le aziende che annunciano direttamente le proprie selezioni e sempre più quelle che lo fanno affidandosi agli intermediari del lavoro e ad altri network per lo più in rete. È una selva immensa di operatori, anche internazionali, che sommergono le mail dei malcapitati di offerte ed opportunità, chiedendo spesso una tariffa mensile a fronte della possibilità di accedere a livelli superiori di interazione con “head hunters”, uffici di selezione del personale o strutture simili. Non discuto che strumenti di questo tipo, abbiano dei costi di gestione che debbano essere , per forza di cose, ribaltati sugli utenti. Ma funzionano? Una piccola ricerca da me condotta su un nucleo di persone, privo, beninteso di rilevanza statistica, mi dice no. Nessuno degli interessati, nemmeno il più qualificato, neanche a fronte di curricula pieni di skills, esperienza e formazione ha mai ricevuto risposta, tantomeno una convocazione per un possibile colloquio. Paradossalmente, alcuni hanno ricevuto concrete manifestazioni di interesse proprio dalle aziende che hanno pubblicato direttamente le loro offerte. Molti ritengono che sia un sistema che a fronte di generiche promesse , assai facili da non mantenere, acquisisce dati personali importanti di centinaia di migliaia di cittadini. Ivi compresi quelli delle aziende per cui esse hanno lavorato. Altrettanto accade per il lavoro in somministrazione che pure sarebbe, nelle sue premesse, largamente inattuate, un utile volano per l’ingresso nel mondo del lavoro. Se una indagine più approfondita dovesse confermare questa mia sensazione, il fatto sarebbe grave. Un baratto malsano tra privacy e illusioni. È chiaro che la ricerca di un posto di lavoro in Italia non può continuare a servirsi di sistemi così opachi. Se non si risolve questa discrasia, il resto sarà tendenzialmente inutile: invece di lavorare , le persone che desiderano farlo, continueranno a trasmettere dati dalle proprie tastiere: un esito iniquo ed inefficiente. La Pubblica amministrazione non può sostituirsi ai privati nel creare posti di lavoro privati, ne decidere chi debba essere assunto da un’impresa. Ma può coordinare i sistemi di pubblicità delle offerte lavorative e controllarne serietà e genuinità. Può imporre che ogni candidatura sia oggetto di un reale riscontro da parte dei selezionatori e stabilire un confine tra servizi mirati al collocamento e eventuali truffe. Su questo versante così delicato, che riguarda le prospettive di vita e il benessere di milioni di persone, oggi lo stato è assente. Riconoscerlo sarebbe già un importante punto di partenza.