Gianpiero Ruggiero
Dalla crisi Covid19 uscirà un’Italia moderna e digitale, più rinnovata e con migliori servizi pubblici online?
Per rispondere a queste domande, occorrere credere che la trasformazione digitale della PA, insieme a quelle delle imprese, sia cruciale per la ripartenza del Paese e che occorra, in breve tempo, far fare un salto di qualità alle nostre amministrazioni, riuscendo a monitorarne gli sviluppi e valutarne gli impatti.
È indubbio che in questo periodo di emergenza sia emersa ancor più chiaramente a tutti l’importanza del digitale. Le pubbliche amministrazioni hanno dovuto reagire velocemente per garantire continuità di servizi e rispondere alle crescenti necessità causate dalla pandemia. Uno stato emergenziale che ha rappresentato un elemento di accelerazione della trasformazione tecnologica e organizzativa di moltissimi enti. Ma la digitalizzazione della PA, in prospettiva, vale molto di più: un fattore di efficienza e di rilancio per proiettare il Paese nel futuro.
D’altronde, oggi, digitalizzazione e gestione dei big data non solo sono le armi più usate in quei Paesi che stanno gestendo meglio la guerra al Covid (Giappone, Corea del Sud, Cina), ma rappresentano quei fattori che contribuiranno di più alla trasformazione dell’economia. Tutti gli analisti concordano nell’individuare almeno quattro megatrend che rivoluzioneranno il mondo economico: tecnologie digitali (in risposta a un cittadino sempre più connesso); longevità della popolazione e qualità di vita (benessere, stili di vita); tecnologie pulite e transizione verso energie innovative; evoluzione sociale e nuovi modelli di consumo. Di questi, l’automazione e il digitale sono i due settori che avranno la crescita più sostenuta.
Saper interpretare questi megatrend perciò potrebbe aiutare l’economia italiana ad avere una crescita più sostenuta, perché con i nostri abituali ritmi di crescita riusciremmo a recuperare la perdita di PIL causata dalla pandemia solo tra un decennio. Questa aspettativa futura, lancia una luce nuova sulla necessità di riorganizzare le PA e su quei piani in preparazione che dovrebbero andare a far parte di quelle azioni necessarie per il programma NextGenEU. Pianificare, prepararsi e studiare, mai come in questo caso, è decisivo per spingere verso una politica digitale al servizio di cittadini e imprese. Sembra sia arrivato il momento di colmare i nostri ritardi e dare finalmente risposte al problema della produttività e della riconversione tecnologica che si protrae ormai da diversi decenni, attanagliando l’Italia in un lungo periodo di stagnazione.
La strada però si presenta in salita. Almeno per due motivi: l’eccessivo peso del debito pubblico accumulato e l’impreparazione generale delle nostre amministrazioni pubbliche a coordinarsi tra loro e a sfruttare il potenziale derivante dalle tecnologie digitali.
Sugli scostamenti di bilancio, i Servizi Studi di Camera e Senato, insieme al Servizio del bilancio, hanno fatto i conti e calcolato di quanto è salito finora il nostro deficit per far fronte alla pandemia: i primi tre scostamenti, autorizzati dal Parlamento l'11 marzo, il 29-30 aprile e il 29 luglio (un quarto è stato approvato il 14 ottobre e un quinto, il “Decreto Ristoro”, è stato approvato da poco, il 28 ottobre), hanno aumentato l’indebitamento netto di 100 miliardi nel 2020, di 32 nel 2021 e di 36 nel 2021. In totale: 164 miliardi (più interessi, quasi 4 miliardi) con cui sono state finanziate le misure previste dai quattro decreti-Covid “CuraItalia”, “Liquidità”, “Rilancio” e “Agosto”. Come sono stati spesi i soldi? Su 101,8 miliardi impegnati nel 2020, al potenziamento del servizio sanitario (incluse spese per il personale) sono andati solo 4,3 miliardi. La parte del leone spetta al sostegno del reddito (36,7 miliardi), seguito da agevolazioni e bonus fiscali (18,7 miliardi), finanziamenti agli enti locali (11,2 miliardi), garanzie e liquidità a imprese e famiglie (8,6 miliardi), contributi e incentivi alle imprese (6,6 miliardi). E nel 2021 e nel 2022? La maggior spesa prevista, al momento, sono le clausole di salvaguardia: 46 miliardi e mezzo.
Va detto che i sussidi per cassa integrazione e sostegno al lavoro sono un aiuto cruciale in questo momento di difficoltà, ma non rappresentano certo quella svolta decisiva per recuperare una caduta di quasi il 10% di PIL. Il ricorso ai sussidi e agli sconti, seppur apprezzabili, da soli non ci salveranno. Vedremo come sarà impostata l’imminente manovra di Bilancio, in cui dovrebbero essere allocati le prime risorse “libere” (17 miliardi) provenienti dall’Unione europea. A questi dovrebbero poi aggiungersi i 23 miliardi di deficit, messi nel programma del prossimo anno, per dare corpo alla legge di bilancio. Una spinta espansiva da 40 miliardi che dovrebbe produrre, nelle intenzioni del Governo, un +0,9% di crescita annua aggiuntiva. Sempre che il calendario dell’utilizzo di Next Generation EU, scritto nella nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (NADEF), regga alle incognite negoziali comunitarie[1] e che ci sia la capacità di formulare progetti credibili.
Sullo stato di salute digitale del nostro Paese, lo scorso giugno è stato pubblicato l’indice DESI (Digital Economy and Society Index), strumento utilizzato dalla Commissione europea per monitorare il progresso digitale degli Stati membri dal 2014. La posizione dell’Italia è ancora pessima, in peggioramento rispetto ai dati pubblicati nel 2019. La lentezza dei processi nazionali è una amara conferma delle carenze del Paese, che stenta a intraprendere un cammino più deciso in materia di digitalizzazione e, incredibilmente, fa anche passi indietro.
Secondo lo studio “Rilanciare l’Italia – Le 8 proposte del Club The European House Ambrosetti”, l’Italia è uno dei Paesi con la maggior percentuale di cittadini insoddisfatti della pubblica amministrazione nazionale: il 65% da un giudizio negativo, rispetto al 21% dei tedeschi, al 46% dei francesi, al 47% dei britannici e al 55% degli spagnoli. L’Italia è addirittura ultima in Europa per livello di soddisfazione delle imprese sulla performance amministrativa.
Dunque, la situazione è, nel complesso, impietosa. Eppure la PA da peso potrebbe trasformarsi in volano di crescita. Il recupero delle competenze, oltre alle infrastrutture e al recupero dell’efficienza amministrativa, sono i fattori determinanti.
Quando pensiamo alle infrastrutture è importante fare riferimento a quello strato che raccoglie e gestisce i dati prodotti e generati da queste infrastrutture. Dalla capacità di gestione del dato dipende, nel prossimo futuro, una più efficace digitalizzazione dei servizi delle città e quindi la creazione di servizi “intelligenti”. Più sapremo attuare un’efficace governance dei dati, più saremo in grado di creare valore per le città stesse.
Incoraggiante, a tal fine, è la recente mozione approvata alla Camera dei Deputati (Mozione 1-00377 approvata il 28 ottobre 2020) che impegna il Governo “ad adottare iniziative normative per prevedere l'integrazione del documento di economia e finanza con appositi indicatori del livello di digitalizzazione e innovazione (indice Desi), sulla base dei dati forniti dall'Istat, al fine di monitorare l'andamento dello sviluppo tecnologico nell'arco di un triennio, nonché le previsioni sull'evoluzione dello stesso nel periodo di riferimento, anche sulla base degli obiettivi di politica economica e dei contenuti dello schema del programma nazionale di riforma”. La proposta, molto apprezzabile, si colloca nel solco di quella presentata la scorsa legislatura di istituire una Commissione permanente sul digitale.
Del resto è noto che il nostro Paese difetti di coordinamento nella programmazione. Una lacuna grave, che ci costa caro, anche perché manca anche una diffusa capacità di gestione del dato. Una diffusa carenza di cultura, non solo tecnica, sulle implicazioni nell’uso degli strumenti della digitalizzazione, unita a una scarsa consapevolezza e propensione da parte dei decisori pubblici all’utilizzo dei dati.
Un’altra criticità, difficilmente risolvibile, è la frammentazione territoriale: un Comune su quattro è sotto i mille abitanti; quasi il 70% ne ha meno di 5 mila. “Manca, non da ora, una strategia per il Paese – dice il rapporto Ambrosetti. Non c’è pianificazione delle strategie, non c’è una ripartizione chiare delle competenze, che si sovrappongono tra i diversi livelli territoriali, tra enti nei medesimi livelli. Di qui nasce l’incertezza normativa”. A questo si sommano la “poca responsabilizzazione dei funzionari pubblici, che incentiva l’inazione”; la “forte inefficacia del sistema di valutazione e incentivazione dei dipendenti”; la digitalizzazione “usata raramente per semplificare i processi”; l’età media alta di 50,6 anni.
La questione centrale ritorna alle strutture amministrative dello Stato. Il grande ritardo digitale, per molti, non è dovuto alla mancanza di piani, progetti e risorse. Dall’avvio dell’Agenda digitale, nel 2010, sono state innumerevoli le iniziative, i piani nazionali, i progetti locali, le misure di legge messi in campo. Ma quello che ha frenato di più è stata l’assenza di una governance centralizzata, capace di indirizzare il grosso delle risorse su misure strutturali, di monitorare i progetti, di trovare una coerenza tra le iniziative nazionali e quelle locali. E così l’Agenda digitale si è frammentata.
Il rischio più alto, anche adesso, di non riuscire a sfruttare bene l’occasione che arriva dalle risorse europee, si annida proprio in questo labirinto di burocrazie, dove echeggia il ritornello della digitalizzazione, spesso evocata ma mai fatta per davvero. Quello che andrebbe evitato, con il Recovery Fund, è soprattutto quell’atteggiamento burocratico di chi dice che ha avviato il progetto, ha messo i soldi e poi si è messo a guardare l’evoluzione dell’attuazione, senza preoccuparsi di verificare modalità, tempi e risultati.
Tre settimane fa, parlando davanti agli industriali di Confindustria, il Presidente Conte ha annunciato una legge per individuare i soggetti attuatori e responsabili del Piano nazionale di Recupero e Resilienza. Saranno sei i responsabili, uno per ogni area di intervento in cui confluiranno i singoli progetti. Confindustria digitale ha subito fatto notare la necessità di istituire una governance centrale per la trasformazione digitale del Paese, “una sorta di Alto commissariato per i servizi digitali sotto l’egida della presidenza del Consiglio”, capace di risolvere problemi operativi e procedurali, promuovere la cooperazione trasversale fra le istituzioni, dare coerenza al processo di cambiamento, monitorare l’andamento dei progetti, verificare i risultati.
L’idea è da prendere in considerazione. Con una governance per il digitale centralizzata e meglio definita, toccherebbe poi alle amministrazioni regionali[2] e locali inserire nei Piani delle Performance (PEG o PDO) specifici obiettivi programmatici di digitalizzazione. Ciò significa, per esempio, verificare la compliance normativa e organizzativa, andando a controllare se l’amministrazione ha nominato il Responsabile per la transizione digitale e verificando se nei Piani della Performance sono stati inseriti obiettivi di informatizzazione e digitalizzazione (incrementare il numero di servizi interamente online; prevedere l’aumento del numero di persone che presentano moduli online; diminuire il numero di moduli da richiedere ai cittadini; automatizzare i processi e dematerializzare procedure; aumentare il numero dei servizi a pagamento che consentono l’uso di PagoPa; incrementare gli accessi ai servizi digitali tramite SPID; ecc.).
Tali obiettivi andrebbero assegnati alla dirigenza e ai responsabili per la transizione digitale, legando l’erogazione delle indennità di risultato al loro effettivo conseguimento. A questo punto, l’introduzione di indicatori di digitalizzazione verrebbe a collegarsi strettamente al ciclo della performance, seguendone gli sviluppi in sede di gestione, monitoraggio e verifica degli esiti finali attraverso l’esame delle relazioni della performance e dei rendiconti.
Le prospettive future del nostro Paese dipendono molto dalla capacità di indirizzare efficacemente la trasformazione digitale. La trasformazione digitale dell’amministrazione pubblica non è un’opzione ma una necessità. Una governance “solida” sembra essere un requisito fondamentale per ottenere un governo digitale maturo. Una cabina di coordinamento, istituzionalizzata e incorporata centralmente, nel corso del 2021, potrebbe accompagnare le PA a creare una baseline per misurare lo sviluppo digitale dei propri servizi, dotandosi di specifici indicatori - come quelli DESI – per analizzare lo sviluppo tecnologico e digitale delle PA e del Paese. Si potrebbe pensare, a tal proposito, di costruire un indicatore composito di performance organizzativa per le Regioni e gli Enti locali, una sorta di Digital Prosperity Index (DPI), per misurare il grado di avanzamento e di prosperità digitale di ciascuna amministrazione, da integrare e confrontare con indicatori che misurino la soddisfazione degli utenti riguardo ai servizi di pubblica amministrazione digitale.
Istituzionalizzare obiettivi di digitalizzazione, insieme a un nuovo paradigma valutativo delle politiche digitali, potrebbe rappresentare il volano per rendere la macchina pubblica in grado di dare risposte soddisfacenti in termini di benessere, contribuendo a rendere la vita dei cittadini sempre più comoda, la crescita delle imprese più agevole, i territori più attrattivi agli investimenti.
[1] Gli atti normativi che dovranno regolamentare Next Generation EU sono attualmente oggetto di negoziato presso le istituzioni europee, in vista di una loro approvazione definitiva, in tempo utile per la loro entrata in vigore in concomitanza con il nuovo ciclo programmatico del Quadro finanziario pluriennale 2021-2027, prevista per il 1° gennaio 2021.
[2] Ad oggi sono già sette le Regioni che hanno sottoscritto un accordo con l’Agid per l’attuazione dell’Agenda digitale nei territori e il Governo ha avviato il confronto sulla “Strategia per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del Paese 2025” (https://docs.italia.it/italia/mid/piano-nazionale-innovazione-2025-docs/it/stabile/index.html)