di Fabio Pisa
Ci interroghiamo spesso su come la pandemia mondiale da cui siamo, almeno per il momento, usciti dalla fase più acuta, sarà in grado di incidere sulla comune visione della società nel suo complesso, dai rapporti di forza che regolano il mercato del lavoro e dei consumi, fino alla dimensione più intima dell’individuo e al suo ruolo all’interno delle comunità. Difficile dare delle risposte. Temo che quella spinta emozionale verso un ideale miglioramento della società che pure tanti hanno avvertito nel momento dello scoramento collettivo da lockdown stia già esaurendo la sua forza propulsiva, ricacciato indietro da un sistema economico sociale fondato su una dottrina liberale talmente consolidata e pervasiva in ogni aspetto dell’agire umano difficilmente scalfibile da un evento circoscritto e tutto sommato ciclico nella storia dell’uomo. Insomma, un cigno nero troppo piccolo per invertire una rotta centenaria.
L’unica eredità che sembra in effetti resistere all’uscita seppur lenta dall’emergenza è lo smart working con cui milioni di cittadini al mondo, più o meno digitalizzati e per lo più operanti nel settore del terziario avanzato, pubblico o privato, hanno fatto i conti.
Resiste perché innanzitutto conviene nell’accezione illuministica del termine, una convenienza economicamente misurabile e rinvenibile nei conti economici dei bilanci in termini di minori costi infrastrutturali ma anche in termini di maggior efficientamento dei processi. Il traguardo più ambito, non dimentichiamolo, è la generazione, di cui si osservano prototipi in fase embrionale, dell’homus productivus, del lavoratore h24, perfetto abitante del mercato globale.
E non a caso per i modelli societari più evoluti, dai colossi dell’ IT, ai big five della consulenza, dalle corporation del settore assicurativo a quelle della finanza, lo smart working è una vecchia conoscenza. E’ stato sufficiente spingerlo fino alla sua applicazione più radicale. Emblematica la posizione di Twitter il cui CEO, all’indomani della fuoriuscita dal lockdown, con una semplice mail ha invitato tutti i dipendenti dell’azienda a continuare a lavorare da casa a tempo indeterminato. Così sensibile al work-life balance?
Tuttavia, è altrettanto innegabile che una estensione dello strumento inteso come forma stabile e strutturale di erogazione della prestazione professionale, laddove possibile (più facile nelle prestazioni a più basso o più alto valore aggiunto), può certamente portare effetti benefici nelle vite delle persone oltre che a tradursi anche in minori impatti ambientali per effetto di una minore gentrificazione nelle aree urbane, una minore circolazione, minori consumi. Ma sono benefici di lungo termine e passano attraverso l’attivazione di più ampi e complessi processi di cambiamento.
Ad ogni modo, favorevoli o no, lo smart working sembra ormai un orizzonte irrinunciabile che anche la pubblica amministrazione, non sempre così reattiva ad interpretare le istanze di una società in continuo rapido mutamento, sembra aver accettato per buona pace di un’ampia fetta della dirigenza pubblica ancora incline ad impartire l’ordine urlandolo dalla propria scrivania al funzionario collocato qualche stanza più avanti.
Ed è un terreno su cui si misureranno da qui in avanti nei prossimi mesi la politica e le parti sociali con la speranza che ad essere partorito non sia il solito “accrocco” figlio di una mediazione tra le parti in grado di scontentarle tutte ed insufficiente a conseguire risultati, se non risibili, sia da un punto di vista economico
che sociale. Come sempre ma allo stesso tempo come quasi mai in Italia, ci vorrebbero coraggio e libertà di pensiero critico.
Suggerirei mestamente di iniziare affrontando una questione non banale di tipo semantica. Smart Working in inglese vuol dire letteralmente lavoro intelligente. Ecco, non vuol dire niente. Incominciare col decidere la più appropriata traduzione italiana renderebbe tutta la declinazione pratica più semplice e scevra da ipocrisie o alibi interpretativi. Decidiamolo cosa vogliamo: lavoro domestico?, lavoro agile?, lavoro per obiettivi?. Sono modalità diverse di intendere una prestazione lavorativa “non in presenza” ma a seconda di quello che scegliamo cambia il paradigma che sta alla base del rapporto di lavoro, cambia il livello di digitalizzazione a cui tendere, cambia la formazione della classe dirigente e del c.d. middle-management, cambia il sistema di revisione del modello organizzativo. Insomma, cambia.