di Luigi Capano
Ci troviamo a Villa Caffarelli, prestigiosa sede degli ancor più prestigiosi Musei Capitolini, per visitare, dopo l’affollata conferenza stampa, la mostra “I Farnese nella Roma del Cinquecento. Origini e fortuna di una Collezione”, curata da Claudio Parisi Presicce e da Chiara Rabbi Bernard (fino al 18 maggio), e incentrata su una delle espressioni più sorprendenti, su uno degli esiti più felici del collezionismo rinascimentale, sia per la qualità che per la grande varietà delle opere raccolte, la Collezione Farnese appunto. Voluta e creata, all’indomani del tragico sacco di Roma (1527), dal Papa Paolo III Farnese, appassionato dell’antico e del contemporaneo, e ampliata, in seguito, dai suoi nipoti, trovò mirabile e rinomato alloggio per circa un secolo nel Palazzo di famiglia a Via Giulia, oggi sede dell’ambasciata di Francia, prima di essere trasferita e poi smembrata dai successivi eredi.
Ed ecco ora, con il ghiotto pretesto dell’anno giubilare, adunata per l’occasione e distribuita in ben dodici sale, un parte cospicua di questo straordinario e disperso museo: sculture romane, bronzi, disegni, dipinti dei migliori artisti dell’epoca (tra questi: Annibale ed Agostino Carracci, Pontormo, El Greco, Raffaello, Rosso Fiorentino), gemme, monete, preziosi manoscritti, capolavori d’arte decorativa. L’antico scorre dinanzi ai nostri occhi rapiti, ancorché adusi all’arte, dal plastico nitore dei marmi: Pan e Daphne, Ganimede, Afrodite Callipigia, Dioniso, un Eros attorto da un delfino, una Venere accovacciata. Di fattura romana, copie, verosimilmente, di originali greci, furono questi i modelli – ed altri consimili - sui quali si foggiarono i grandi maestri del Rinascimento e del Barocco, copiando meticolosamente le forme e i dettagli dell’arte antica. Walter Otto, eminente storico delle religioni, lesse in questa copiosa produzione di marmi e bronzi, la volontà di insufflare il divino nell’umano, teomorfizzandolo. L’arte come teofania, fu la geniale intuizione dello studioso tedesco: la bellezza come segno epifanico dell’irruzione del sacro nelle vicende umane. Sono ben rappresentati in mostra anche i cosiddetti manieristi, cultori del dettaglio prezioso, lambiccato, finemente cesellato. Da un olio di Rosso Fiorentino, un giovane ben azzimato ci guarda distante e imperturbato, seduto su di una panca coperta da un tappeto orientale; sullo sfondo opaco si intravedono un capitello ed un’icona sacra. Lo si direbbe un dandy del Rinascimento o un Des Esseintes ante litteram. Ed ecco una tavola del Pontormo dai connotati michelangioleschi: Venere in tutta la sua conturbante nudità si intrattiene con l’alato Cupido, il suo indocile figlio. Ma il pittore sembra utilizzare un abile espediente per indicarci il vero soggetto del quadro, posto sulla sfondo: la coppia divina infatti, impugnando una freccia, addita una pietra cava e squadrata che sostiene un’alzata con dei fiori, e dalla quale fuoriescono, assieme ad un arco, delle maschere e una sorta di inquietante fantoccio. Un’allegoria? Una metafora? Un enigmatico memento? E che dire, poi, della “Partita a Scacchi” di Sofonisba Anguissola? Al di sopra della preziosa scacchiera a cui è intento il gruppo, si configura un geometrico gioco di sguardi, a definire uno spazio ottico che induce il riguardante ad una ludica motilità retinica. Sembra trasparire da questi laboriosi dipinti il leitmotiv un’antica concezione esistenziale: la vita come teatro, il mondo come palcoscenico della commedia umana e l’uomo consapevole attore, protagonista disilluso e smagato del proprio indifferibile dramma.