di Annalisa Libbi
La celebrazione il 25 novembre della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne vede, ogni anno, l’ampliamento del dibattito alla questione femminile nel suo insieme.
In questo senso, si assiste, anche in questo caso, ad una narrazione che non è esente dalla necessità di posizionarsi incasellando il tema nell’eterna divisione tra destra e sinistra.
Quando il dibattito è polarizzato è anche molto alto il rischio di sconfinare in una riflessione stereotipata.
La natura dell’approccio cambia molto le conclusioni che ne conseguono e, forse, vale la pena chiedersi se possa esistere un modo di affrontare la questione che sia il più possibile oggettivo e dal quale ricavare una riflessione di prassi.
Si può essere oggettivi rispetto a questioni che coinvolgono in modo così forte anche la sfera dell’emotività e dei sentimenti? Forse sì e, fondamentale sarebbe comprendere i dati statistici e sociologici minimi al fine di impostare un qualsivoglia ragionamento, seguendo un metodo che, se anche non esatto come un’operazione matematica, sia il più possibile scevro da approcci emotivi, ideologici e di percezioni personali.
“Prevenire è meglio che curare” recitava una vecchia pubblicità degli anni ottanta e, questo precetto potrebbe essere sempre utile in tutte quelle riflessioni che intendono individuare percorsi di risoluzione dei problemi.
In questo modo, vi sarebbe un cambiamento di paradigma che, risalendo alle radici della questione, offrirebbe un punto di vista diverso che è quello della informazione e formazione.
Un approccio basato sullo studio dei dati, sulla volontà di eliminare gli stereotipi culturali e sociali a volte impregnati di un maschilismo che si arroga il potere di concedere alla donna ciò che, al contrario, per l’uomo è scontato.
Una riflessione di questo tipo, però, non avrebbe senso di esistere se rimanesse fine a sé stessa senza produrre, a livello politico, una normativa che, non sia tanto punitiva quanto, capace di eliminare quelle condizioni in cui la donna si trova spesso a vivere quali la mancanza di indipendenza economica, la difficoltà di comporre il compito, spesso non condiviso, della gestione dei figli e del nucleo famigliare in senso più ampio.
Un buon riferimento potrebbe essere l’azione trasversale attuata dal recente PNRR che prevedeva e prevede investimenti atti a potenziare più campi al fine del raggiungimento di una effettiva parità di genere. Un’azione che attraversa il tema della formazione e dei numeri che riguardano le discipline STEM, alle quali ancora troppe donne non accedono rinunciando così anche al raggiungimento di figure apicali in campo lavorativo. Prossimo a quest’ultimo campo, quello dell’imprenditoria femminile senza, però, tralasciare l’importantissimo settore dei servizi educativi il cui potenziamento renderebbe, non solo per la donna, più semplice l’inserimento nel mondo del lavoro. Non bonus che rischiano di relegare ancora di più la donna negli stereotipi di genere che ne appesantiscono il cammino ma investimenti che, strutturati nel tempo, creino le condizioni di una parità naturale che non livelli le pur esistenti diversità di approccio tra uomo e donna.