di Luigi Capano
L’Espressionismo, se inteso come una delle molteplici anime dell’arte moderna, è figlio della pittura visionaria e primordiale di Van Gogh, il quale fu tutt’altro che un istintivo se dichiarò programmaticamente in una delle lettere al fratello Theo: “Esprimere l’amore mediante l’unione o l’opposizione di due colori complementari, nelle vibrazioni misteriose dei toni accostati. Esprimere il pensiero di una fronte con le radiazioni di un tono chiaro su un fondo scuro. Esprimere la speranza con le stelle.
L’ardore di un essere umano col raggiante splendore del sole al tramonto…usare il colore arbitrariamente per esprimersi con forza..”.
L’Espressionismo, insomma, come tendenza animica che ad intermittenza si affaccia nella storia dell’arte quando le forze plasmatrici psichiche soverchiano l’obiettivazione del reale sensibile, vivificando immagini e visioni dalle geometrie eccentriche e dalla cromìe anarchiche e innaturali. Anche in Italia abbiamo avuto un Espressionismo che si è manifestato segnatamente, ma non solo, negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali, come una delle numerose pulsioni estetiche che agitarono quel torno di tempo, artisticamente sovvertito dalla recente rivoluzione futurista. E che oggi ritroviamo al centro della mostra “L’Estetica della deformazione. Protagonisti dell’Espressionismo Italiano” curata da Arianna Angelelli, Daniele Fenaroli e Daniela Vasta e ospitata, fino al 2 febbraio 2025, dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma, che, per l’occasione, ha integrato la propria collezione, già molto ampia, con opere provenienti da altre collezioni capitoline (I Musei di Villa Torlonia e La Casa Museo Alberto Moravia) e dalla prestigiosa Collezione Giuseppe Iannaccone di Milano. L’esposizione, distribuita sui tre piani del museo, è suddivisa in tre grandi nuclei tematico-geografici, la Scuola Romana di Via Cavour, il gruppo dei Sei di Torino, il gruppo milanese di Corrente, accomunati da una ricerca stilistica orientata nella direzione del primato del colore sul disegno e dell’afflato emozionale sulla visione meditata e attenta. Fu Roberto Longhi, per primo, a definire “espressionisti” Mario Mafai, Antonietta Raphaël, Gino Bonichi (Scipione) e gli altri pittori di Via Cavour - ci spiega la cocuratrice Daniela Vasta nel corso della conferenza stampa - recensendo sull’ Italia Letteraria la loro prima apparizione pubblica, nel 1929, alla mostra del Sindacato Laziale Fascista degli Artisti. Spigoliamo con attenta curiosità tra i quadri, numerosi, che ci attorniano. Dinanzi ai due oli di Scipione, “La via che porta a San Pietro” e “Il Cardinal Decano” ci raggiungono gli echi lontani del Goya della Quinta del Sordo e delle oblunghe anatomie metafisiche del Greco; e ci sorprende una liaison analogica con la coeva prosa visionaria e indocile di Marcello Gallian, intellettuale tra i più attivi nella Roma di quegli anni. Eccoci di fronte ad un realista, Alberto Ziveri, che ha studiato i fiamminghi ma si è ricordato del Caravaggio, e ci catapulta in medias res, nella spaesante atmosfera ludico-erotica di un postribolo…come in un salace sogno felliniano. Nella sezione torinese troviamo il friulano Luigi Spazzapan, vicino al gruppo dei Sei. La sua Kyralina è un didascalico esempio di estetica della deformazione ispirata ai tedeschi del movimento Die Brücke. Del gruppo di Corrente, infine ci piace ricordare Arnaldo Badodi, morto in guerra trentenne, ben rappresentato in mostra. Cifra ricorrente della sua poetica, l’elemento giocoso, a tratti parodistico che sembra però invitarci a intuire oltre la tela e i colori, un senso riposto, verrebbe da dire, anagogico.