Cappellano MILITARE dal 1937 al 1977 operò A ROMA dal 1940 AL 1945
di Sergio Conti
Don Giovan Carlo ( Giancarlo ) Centioni (1912 -2010 ) Cappellano militare nasce a Grottaferrata il 5 Luglio 1912 da Umberto e Raponi Cherubina, risiede in Grottaferrata dalla nascita sino al 27 gennaio 1961 in Viale Vittorio Veneto n. 42 ( Casa Generalizia dei Padri Pallottini ) quando fu trasferito a Roma. Il padre proprietario terriero di professione “ vignaiolo “ insieme alla madre casalinga assecondarono ed aiutarono il futuro sacerdote nella sua missione di vita.
Laureatosi in filosofia dopo la licenza in teologia e la laurea in diritto canonico e civile. Docente di storia e filosofia presso le scuole dei Pallottini e in quelle dello Stato. Viene nominato Cappellano Militare dal 1937 al 1077 ed operò a Roma dal 1940 al 1945 presso le Caserme Pastrengo di Viale Giulio Cesare in Roma, in questo periodo risiede a Roma in Via dei Pettinari n. 57 nella casa generalizia della società dell’Apostolato Cattolico ( Pallottini) Muore a Roma nel 2010 alla vereranda età di 98 anni.
Don Giovan Carlo Centioni un sacerdote cattolico da inserire tra i “Giusti “ di Israele.
Chi come me ha conosciuto Don Giancarlo e ha letto il suo memoriale, custodito nella mia biblioteca, che raccoglie sia volumi storici su Grottaferrata, sia testi di vario genere scritti da cittadini di Grottaferrata, non può far meno che divulgare queste notizie. Credo di essere uno dei pochi a pensare che Don Giovan Carlo debba essere aggiunto ai cinquecento italiani nella speciale lista stilata a Gerusalemme dei “ GIUSTI “ . Ritengo che sia doveroso da parte mia informare sui fatti e gli accadimenti dal 1940 al 1945 che videro Don Giovan Carlo in prima fila per il ruolo e la funzione da Lui ricoperta nella tragedia della Shoah. Di seguito riporto due articoli di quotidiani pubblicati anche di recente che meglio fanno comprendere il delicato ruolo svolto da Don Giancarlo. “Il ruolo svolto dalla St. Raphaels-Verein nel salvataggio degli ebrei e nel carteggio del vescovo di Campagna mons. Giuseppe Maria Palatucci e nei ricordi di don Giancarlo Centioni, che «encomiò l’opera di carità che compiono in questi giorni le Suore e i Monaci, che aprono le porte della clausura per accogliere coloro che hanno bisogno di rifugio».Nel settembre del 2008 il sacerdote Pallottino don Gian Carlo Centioni scrisse un interessante memoriale, ripreso anche in un’intervista televisiva, nel quale rivelò tutti i particolari della rete di assistenza clandestina a beneficio degli ebrei, denominata St. Raphaels-Verein (Opera S. Raffaele), un’organizzazione cattolica sorta in Germania nel lontano 1871 come società di patronato dei migranti e dei rifugiati tedeschi e poi estesa anche agli ebrei – di cui era referente a Roma padre Anton Weber che, dal suo quartier generale di via Pettinari 57, si muoveva in perfetta sinergia con la Segreteria di Stato di Sua Santità Pio XII (1876-1958), nell’intento di adempiere le direttive pontificie, secondo le quali tutti coloro che erano in pericolo dovevano essere presi sotto le ali protettive della Chiesa, indipendentemente dal loro colore politico e dalla loro fede religiosa.
Difatti, come sottolinea il segretario di Stato Maglione in una lettera inviata il 6 febbraio 1941 all’arcivescovo di Vienna Mons. Innitzer, appena «iniziò, in alcune Nazioni, la politica “razzista” per cercare di lenire sempre più siffatte sofferenze, la Santa Sede caldamente raccomandò e favorì la costituzione, sia in Europa sia nelle Americhe, di Comitati nazionali cattolici di soccorso.
Sua Santità per favorire detta emigrazione, ha benevolmente messo a disposizione della direzione del menzionato “Raphaels -Verein” trentamila dollari. Inoltre, allo stesso fine, sono state fatte le necessarie pratiche affinché dai Governi Spagnolo e Portoghese non si facciano difficoltà per l'eventuale passaggio dei profughi diretti in Brasile».
Pertanto, in ossequio a questa direttiva, diversi religiosi e religiose in quel periodo, mettendo a repentaglio la propria vita, si adoperarono per sottrarre gli ebrei al loro triste destino, nascondendoli all’interno dei propri monasteri, come del resto si evince chiaramente anche dalle cronache della comunità di Grottaferrata delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, guidata all’epoca da suor Salesia Galamini, in cui si riporta un’interessante riflessione sulla pregevole attività di questa rete segreta proprio di don Gian Carlo Centioni, che dal settembre '43 al marzo '44, fu richiamato a Roma dall’Ordinario Militare Mons. Angelo Bartolomasi, per ricoprire l’incarico di Cappellano della G.N.R. presso la Caserma «Mussolini» in via Baiamonti e presso quella “Pastrengo” dei Carabinieri dopodiché fino alla liberazione della capitale, fu trasferito presso la caserma dell’81° Reggimento Fanteria in viale Giulio Cesare, dove venivano raccolti gli ebrei e le altre persone rastrellate, i primi per essere deportati in Germania, e gli altri per essere avviati nelle retrovie del fronte per la costruzione delle fortificazioni.
Il 5 febbraio del 1944, infatti, al termine della celebrazione Eucaristica, che aveva appena presieduto nella cappellina delle suore, mentre spiegava il significato «del martirio di Sant’Agata, vedendo dei signori ed altre persone ospitate (dalle religiose) encomiò l’opera di carità che compiono in questi giorni le Suore e i Monaci, che aprono le porte della clausura per accogliere coloro che hanno bisogno di rifugio». In realtà, come egli stesso dichiarerà negli anni successivi, alloggiando nello stabile attiguo alla Casa Generalizia dei Pallottini in via dei Pettinari 57, ebbe l’occasione di allacciare i primi contatti con il referente romano dell’Opera San Raffaele e con i sacerdoti della Società del Verbo Divino di Roma, divenendo in tal modo uno dei membri più attivi di questa rete clandestina di cui, a partire dal 1940, era responsabile il tedesco P. Anton Weber coadiuvato dal rev. Gottfried Melcher – a cui era affidato il compito di allacciare i contatti con i vari uffici e consolati per procurarsi i documenti necessari – e da altri due confratelli. Oltre che a Roma i punti nevralgici di questa rete segreta che, grazie anche al provvidenziale aiuto del responsabile dell’ufficio politico della questura capitolina Romeo Ferrara agevolava l’espatrio degli ebrei, si trovavano ad Amburgo ed a Lisbona dove operavano, rispettivamente, il segretario generale P. Alexander Menningen e il polacco P. Woicjech Turowski. Una delle principali attività svolte in quel periodo consisteva nel procurare passaporti e denaro alle famiglie ebree braccate dai nazifascisti per agevolarne la fuga negli Stati Uniti e nei Paesi dell’America del Sud attraverso la Penisola Iberica. Difatti P. Weber aveva spesso contatti diretti persino con lo stesso pontefice e la Segreteria di Stato di Sua Santità che gli forniva il denaro e i passaporti di cui aveva bisogno per consegnarli agli ebrei che desideravano espatriare proprio attraverso don Gian Carlo Centioni che, in virtù delle funzioni che svolgeva allora, godeva di una certa libertà di movimento. Come ricorda egli stesso in quel periodo ricevette «numerosi incarichi di portare denaro in nome e per conto della Santa Sede, della Croce Rossa Internazionale e, attraverso il P. Weber, a tante famiglie ebraiche in Roma e dintorni. Il denaro ed i passaporti venivano dati a queste famiglie ebree da padre Weber che li otteneva direttamente dalla Segreteria di Stato di Sua Santità in nome e per conto di Pio XII».
Tra le famiglie ebree che beneficiarono di questi aiuti, don Centioni ne ricorda alcune: Andrea Maroni e Zoe Imavein, il prof. Melchiorre Gioia, il prof. Aroldo Di Tivoli, la famiglia del violinista Tagliacozzo con la moglie Cohen, il sig. Ghiron e il dott. Vincenzo De Ficchy, che riuscirono a sfuggire ai loro aguzzini raggiungendo gli Stati Uniti proprio grazie ai passaporti forniti dal Vaticano. Altri, come il prof. Van der Reis, direttore dell’Ospedale di Danzica, ed il celebre maestro di musica Erwin Frimm Kozac, furono nascosti da don Centioni proprio presso la Casa Genera-
lizia dei Pallottini e nel complesso edilizio di via Giuseppe Ferrari.
Questa audace opera, in effetti, fu agevolata anche dalle provvidenziali reti informative di cui gli ineffabili sacerdoti Pallottini si avvalevano in quel periodo grazie ai contatti allacciati con alcuni funzionari della Questura di Roma che, appena fiutavano il pericolo di arresti imminenti disposti ai danni degli ebrei, immediatamente mettevano al corrente i religiosi segnalando il grave rischio che incombeva su di loro, in modo che gli interessati potessero essere preventivamente avvertiti e mettersi rapidamente in salvo. «ln particolare – ricorda nel suo memoriale don Centioni – si prodigarono, in tal senso, il vice Questore di Roma, il
dr. Romeo Ferrara, il dott. Pennetta, il dott. Barletta, il dr. Fiori ecc. Grazie al primo, poterono sfuggire alla cattura i componenti della famiglia Bettoja. Di notte, sulla base delle indicazioni proprio del dott. Ferrara, raggiunsi la loro abitazione nei pressi di Piazza Ungheria; li avvertii dell’imminente pericolo e rilasciai ad essi un salvacondotto, mediante il quale poterono allontanarsi da Roma. (Una delle loro figlie, Franca, divenne poi la moglie di Ugo Tognazzi). Grazie, invece, al dott. Fiori, riuscii ad impedire la cattura del già nominato Maestro Frimm Kozac».
Inoltre, in un memoriale scritto di suo pugno il 18 aprile 2010 don Centioni aggiunge: «ricordo che nell’anno 1943 la nostra Comunità di Via dei Pettinari ha accolto e nascosto, tra gli altri, per almeno due mesi, la famiglia ebrea Pavoncello, composta allora dal padre sig. Angelo, dalla moglie sig.ra Tagliacozzo Speranza e dai figli Settimio, Margherita, Pacifico, Alberto, Peppino e Fiorella. Successivamente sono stati separati e sono stati nascosti singolarmente in altri luoghi. Dichiaro, inoltre, che il sig. Pacifico, allora ragazzo, arrestato in piazza Fiume e portato prima a Via Tasso, poi nel carcere di Regina Coeli e infine nella Caserma dell’81° Fanteria, e stato lì salvato dal mio confratello P. StanisIao Suwala», consultore generale dei Pallottini che in incognito faceva di tutto per aiutare gli ebrei a sfuggire ai loro aguzzini.
Grazie ai passaporti ed al denaro – 3.000 dollari, 1.895.000 escudos e 3.100.000 lire – che la Segretaria di Stato di Sua Santità, per nome e per conto di Pio XII, mise a sua disposizione, tra il 1940 e il 1944 P. Weber delle 25.000 persone assistite riuscì a far emigrare ben 1.500 ebrei di nazionalità tedesca, polacca, austriaca e jugoslava. Quanto andiamo dicendo è suffragato da una missiva inviata al pontefice, il 2 settembre 1944, proprio dal direttore di questa organizzazione nella quale si legge: «questa opera fu possibile soltanto grazie alla protezione e al valido aiuto della Santa Sede e prima di ogni altro alla persona di Sua Santità, che con cuore paterno è venuta in aiuto della opera nostra. Subito dopo rivolgiamo il nostro pensiero all’Istituto “Opere di Religione” senza la cui efficace, pronta, e generosa assistenza il problema finanziario della assistenza ai profughi non si sarebbe mai potuto risolvere».
Dell’aiuto di questa eccellente rete assistenziale si avvalse, tra gli altri, anche il vescovo di Campagna, mons. Giuseppe Maria Palatucci, zio del celebre reggente della questura di Fiume Giovanni Palatucci che, proprio in quel periodo, si trovò a lavorare gomito a gomito con l’Opera San Raffaele, come del resto emerge da alcune lettere contenute nel suo archivio personale. Il 4 febbraio 1941, infatti, il presule francescano si rivolse a padre Weber per intercedere a beneficio di alcuni internati di origine ebraica che si trovavano nel campo di Campagna: «Prendo occasione – scriveva mons. Palatucci – di un mio sacerdote che viene a Roma, il Rev.mo Can. Gibboni, e Vi mando l’elenco di alcuni internati che desiderano che Voi vediate se può farsi qualche cosa per le loro pratiche di immigrazione». Emblematico in tal senso appare il caso di Sigismondo Hirsch che, attraverso i buoni uffici del rettore del seminario regionale di Salerno, mons. Domenico Raimondi, al quale era stato segnalato dai monsignori della diocesi genovese Costa e Giacomo Moglia, il 14 settembre del 1940, mediante una circostanziata missiva si presentò a mons. Palatucci spiegando che in passato aveva avuto modo di allacciare «un legame compatto con il grande Padre Semeria» e «l’onore di poter accompagnare il defunto ecc.mo Rabbino Dr. (Alessandro) Da Fano di Milano presso Sua Santità Pio XI», che lo ricevette in udienza privata in più di una circostanza, in virtù della sincera amicizia che li legava fin dai tempi in cui l’allora prefetto Achille Ratti, insegnava ebraico presso il seminario ambrosiano. Fu così che in seguito, per la precisione il 15 settembre successivo, Sigismondo Hirsch – con la moglie, internata a l’Aquila, ed i figli Bernardo e Giulio – grazie all’intervento del vescovo di Campagna presso il Ministero dell’Interno, nonché del Questore di Salerno comm. Palma e del commissario De Paoli, riuscì ad ottenere il nulla osta ed i passaporti per l’espatrio in Ecuador. Di conseguenza, il 24 settembre di quello stesso anno, mons. Palatucci decise di rivolgersi alla Segretaria di Stato della S. Sede per procurarsi il denaro necessario per questo viaggio, assicurando che si trattava «di un ebreo retto e di coscienza e dà affidamento della sua parola». Nel frattempo, però, Sigismondo Hirsch era riuscito a racimolare la somma necessaria di cui aveva bisogno dagli ebrei di New York ragion per cui, il 10 ottobre 1940, dal campo d’internamento di Campagna scrisse una nuova lettera all’arcivescovo di Genova Pietro Boetto, facendo appello alla sua generosità allo scopo di essere aiutato per il deposito della cauzione di 400 dollari presso il Banco Central do Ecuador «necessario per ottenere il visto». È a questo punto che entra in gioco padre Weber, allorché per procurarsi questa somma di denaro mons. Palatucci decise di rivolgersi proprio a lui ben sapendo quando stava facendo per altri bisognosi. «Il sig. Sigismondo Hirsch – scriveva, infatti, il 15 ottobre 1940 il vescovo di Campagna – mi ha detto che ha scritto una lettera a Voi e un’altra anche al Card. Boetto per ottenere che gli sia concesso un prestito di 400 dollari per ottenere il passaporto per l’Equatore, poiché dagli ebrei di America ha ottenuto il denaro per i biglietti di viaggio. Da parte mia già avevo raccomandato la cosa alla Segreteria di Stato di S.S., ma finora non ho ricevuto risposta in proposito. Ecco perché ben volentieri vi raccomando la preghiera del sig. Hirsch, che mi pare dia grande affidamento di serietà». La risposta di padre Weber non si fece attendere, tant’è che il 29 ottobre successivo, si affrettò a rassicurare mons. Palatucci facendogli pervenire una missiva nella quale dichiarava che «anche per il Sig. Hirsch siamo occupati di fare tutto il possibile. Lui è venuto proprio oggi dal Campo di Concentramento a Roma». Questo, in realtà, non fu l’unico caso che mons. Palatucci segnalò all’Opera San Raffaele. Il 21 ottobre 1940, infatti, si era rivolto al sacerdote pallottino per caldeggiare anche la pratica della signora Gertrud Neumann e di suo marito Vittorio Wolffsohn, internato a Campagna, che avevano intenzione di emigrare in Brasile. In seguito, il 21 agosto 1942, mons. Palatucci scriveva ancora una volta a P. Weber per perorare la causa del commerciante ebreo di origini polacche Abraham Gleitmann allo scopo di «facilitargli l’emigrazione nel senso che egli ha spiegato. Certo, è una grande opera di carità, e se potete farla, fatela quanto meglio e quanto più presto è possibile, poiché mi pare che sia un uomo degno di essere accontentato». La risposta non si fece attendere, tant’è che il 29 agosto successivo, confermando di aver ricevuto la lettera del sig. Gleitmann, il sacerdote pallottino, replicava assicurando «faremo tutto il possibile di fargli avere il visto per la Spagna. Vi preghiamo V. Eccellenza Rev.ma umilmente di fare arrivare la lettera acclusa al sig. Gleitmann, che lo informa di tutti i passi, i quali bisogna fare per avere il visto spagnuolo». Poi fu la volta dell’ing. Walter Graetzer, un altro ebreo internato a Campagna desideroso di emigrare in Venezuela che, il 15 maggio del 1941 – su consiglio del Nunzio Apostolico in Italia Francesco Borgongini Duca e in virtù di una raccomandazione di Mons. Palatucci – si rivolse al referente romano dell’Opera S. Raffaele per procurare alla «moglie Margarethe Bogner attualmente a Vienna (…) un posto presso una buona famiglia a Roma», in modo da ritrovarsi insieme al momento del loro trasferimento in Venezuela o in Cile visto che, proprio in quel periodo, stavano favorendo l’immigrazione di ingegneri e tecnici. Di questo se ne occupò ancora una volta il solerte presule francescano il quale, subito dopo aver appreso che il R. Consolato Italiano a Vienna le aveva rilasciato il visto d’ingresso, il 14 marzo 1942 si affrettò a scriverle per rassicurarla che «durante il vostro soggiorno in Italia troverete alloggio e vitto qui a Campagna nel convento di queste Suore, in modo che non avete bisogno di provvedervi di divisa estera». Inoltre, tra le centinaia di documenti custoditi nell’archivio di Mons. Palatucci, risalta anche il carteggio con P. Anton Weber per ottenere dei visti per un Paese del Sud-America, come nel caso del profugo di guerra di origini polacche Antonio Iwanicki – che era stato separato dalla moglie e dai figli deportati, rispettivamente, in Siberia ed ai lavori forzati nelle miniere del Kazakistan – del tedesco Hans Heimann con la madre Helene Weiss che avevano espresso il desiderio di trasferirsi in Brasile, dell’ingegner Wilhelm Feith, Enrico Kniebel, Alessandro Gottlieb, Walter Graetzer e Giorgio Pionkowski che aveva «ottenuto la promessa certissima dal Consolato di Genova che gli daranno un “visto” per l’Ecuador a lui e alla madre di lui attualmente internata a Lagonegro (Potenza)».
Come si evince chiaramente da quanto vi abbiamo fin qui raccontato, l’impegno in prima linea della S. Sede e di tanti religiosi e religiose in questa catena di solidarietà, non fu nel modo più assoluto qualcosa di sporadico e localizzato in zone particolari, ma rappresentò, al contrario, un atteggiamento diffuso e ben ramificato che si estendeva in tutto il territorio nazionale collegando tra loro anche varie diocesi.
Giovanni Preziosi articolo pubblicato il 19/6/2015 “ La Stampa “
“ Suore e Monaci “ I Padri basiliani che con il Rev.mo Padre Archimandrita Isidoro Croce nascondevano nelle soffitte del Monastero Esarchico di Santa Maria di Grottaferrata e presso L’Istituto Sacro Cuore di Via Garibaldi e nel convento di Rocca Priora molti ebrei.
DON CENTIONI «COSÌ SALVAVO GLI EBREI CON PIO XII»
In un'intervista televisiva esclusiva su H2Onews.org, l'ex cappellano militare delle "Camicie nere" sfata le falsità su Papa Pacelli. Testimoniando l'esistenza di una rete voluta da lui stesso per aiutare le famiglie ebree a fuggire dai nazisti
Altro che antisemitismo. Una dimostrazione ulteriore che su Pio XII è stata costruita una vera e propria leggenda, viene da un video pubblicato oggi da H2Onews.org, il servizio d’informazione multimediale dedicato alla vita della Chiesa nel mondo.
Si tratta di 5 minuti di intervista a don Gian Carlo Centioni, che fece parte di una rete clandestina creata da Pio XII in persona per salvare gli ebrei dalle persecuzioni naziste: «Consegnavamo passaporti e soldi alle famiglie ebree perché potessero fuggire - racconta il sacerdote, che di questa rete è l’ultimo testimone ancora in vita - Sia i documenti che i soldi venivano direttamente dalla Segretaria di Stato di Sua Santità, per nome e conto di Pio XII».
Come ha spiegato recentemente a Tracce.it il vaticanista Andrea Tornielli, infatti, «l’impegno della Chiesa è stato enorme: solo in Italia, in più di 100 città e in 102 paesi, 500 case religiose maschili e femminili hanno nascosto degli ebrei». Non si trattò, dunque, di singole iniziative: «uno sforzo così non si spiega senza una tacita benedizione di Pio XII, anche perché molti ebrei sono stati nascosti in istituti di clausura e solo un ordine speciale del Papa poteva permettere di violarla».
E la testimonianza esclusiva di don Giancarlo Centioni ne è una conferma. Dal 1940 al 1945 ha lavorato come cappellano militare nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale a Roma, un ruolo che gli ha permesso di salvare molte vite: «I miei colleghi sacerdoti tedeschi mi hanno invitato a partecipare alla rete. Siccome ero cappellano fascista, mi era più facile aiutare gli ebrei». Per questo, il suo racconto - scoperto e vagliato anche dalla Pave the Way Foundation nata da Gary Krupp, un ebreo di New York .
Fabrizio Rossi News “Comunione e Liberazione” del 14/01/2010
Sono disponibili sui due articoli anche le interviste televisive.
Il Giusto è un eroe con un piccolo grande valore aggiunto dato dalla capacità di “dimenticare” quanto fatto, mentre un eroe di quanto ha fatto ci vive tutta la vita, se ne vanta, ne trae profitto.
Il Giusto non è la persona che si volta dall’altra parte quando vede il dolore, indifferente a quanto succede perché non lo riguarda. E’ la persona che si fa carico della sofferenza altrui cercando con tutti mezzi di aiutare gli indifesi e i perseguitati. Una sorta di “banalità del bene” intendendo questa espressione come la capacità di riconoscere e di opporsi al male al di là e al di sopra d’ogni ideologia.
Una sorta di dicotomia con “la banalità del male”, titolo di un importante libro di Anna Arendt, studiosa tedesca che ricostruì la vita e la psicologia di Adolf Eichmann, il tristemente famoso organizzatore delle deportazioni verso i campi di sterminio. Catturato dopo la guerra nel 1960 in Argentina ove si era rifugiato, portato a Gerusalemme venne giudicato e condannato a morte. La sua difesa consistette nell’affermare che aveva solo obbedito agli ordini. Gli ordini erano di organizzare al meglio le deportazioni degli ebrei e lui li aveva tranquillamente eseguiti. Appunto, la banalità del male. Anche Don Centioni non esegui gli ordini ma prevalse in Lui l’opera caritatevole del sacerdote cattolico.
Raccontare ai ragazzi la Shoah, lo sterminio premeditato di 6 milioni di cittadini europei di religione ebraica è fondamentale ma se accanto a ciò trasmettiamo le storie di persone normali che seppero dire no, seppero opporsi anche a rischio della propria vita, trasmettiamo un importante valore positivo e cioè che ognuno di noi qualcosa può e deve fare per impedire odio e violenza.
Nonostante lo straordinario messaggio morale universale rappresentato dalla foresta di Gerusalemme, l’idea di rendere omaggio ai Giusti è rimasta per troppo tempo limitata esclusivamente alla memoria della Shoah.