Intervista di Alessandro Mauriello con il Prof. Francesco Antonelli
Il diritto di discussione pubblica, il diritto alla prassi politica, insieme alla costruzione dell’opinione pubblica e alla sua formazione ormai passano sempre più attraverso alcune fenomenologie della società moderna come “delega carismatica e “Tecnicismo giuridico” come ben indagato da molteplici studiosi di varie epoche come Max Weber o il sociologo Augusto Iluminati.
La Fase di Trasformazione in una società ipercomplessa (P. Dominici) oltrepassa questo legame, causa l’accelerazione antropologica della tecnologia nella politica e nel potere, daremo ipotesi a questo nuovo scenario con l’ausilio del prof. Francesco Antonelli, docente in Sociologia generale, in Sociologia politica presso l’Ateneo dell’ Università degli studi di RomaTre del Dipartimento di Scienze politiche.
Gentile prof, nel suo ultimo lavoro (Tecnocrazia e democrazia. L’egemonia ai tempi della società digitale, L’Asino d’Oro) lei ripercorre il legame tra tecnologia e democrazia. Ci può descrivere storicamente questa connessione?
Nel mio ultimo lavoro cerco di analizzare il rapporto tra lo sviluppo della democrazia e il ruolo crescente che le competenze tecniche, le competenze cioè di esperti come economisti, ingegneri, manager, sociologi e così via, svolgono nel governo delle società. A questo ruolo, a partire dagli anni Trenta del Novecento, è stato dato un nome: “tecnocrazia” che rimanda ad una doppia idea: potere degli esperti e potere dei saperi tecnici dei quali sono portatori questi esperti. Più le società diventano tecnologicamente avanzate – innanzitutto nel campo della produzione e in quello della comunicazione – più si afferma una visione della società come di un sistema da presidiare, ottimizzare, sviluppare. Di conseguenza, non si creano solo le condizioni tecniche e il bisogno di sviluppare apparati amministrativi di tipo burocratico, sempre più estesi; cresce anche l’esigenza, da parte dei decisori politici, di includere esperti e saperi esperti per governare questa “società sistemica”, individuando non solo i mezzi ma anche i fini legittimati da una qualche forma di sapere scientifico e tecnico.
Molto in generale, questo processo finisce per introdurre un principio elitario all’interno del gioco politico democratico non immediatamente “governabile” dai meccanismi della democrazia formale: come ci ripete la tradizione liberal-democratica sulla quale è stata edificata la scienza politica contemporanea, poiché nel mondo reale tendono sempre a formarsi delle “élite” come le chiamava Vilfredo Pareto, cioè minoranze caratterizzate da un superiore status sociale oppure ricchezza oppure cultura,che esercitano di fatto il potere (anche se formalmente la “sovranità appartiene al popolo”, come recita ad esempio la nostra Costituzione), la democrazia formale può essere vista come un meccanismo che genera una competizione aperta e libera tra le diverse élite, il cui diritto di governare, a tempo limitato e stabilito, è deciso dal popolo, attraverso le elezioni e grazie a un sistema di diritti. In più, i governati possono anche provare ad entrare a far parte di queste “minoranze” oppure di dar vita a nuove. Ebbene questo meccanismo salta, nella sostanza, di fronte all’ascesa degli esperti: gli esperti tendono a lavorare “dietro le quinte”, sono selezionati per merito e cooptazione e non possono essere scelti “semplicemente” con un meccanismo democratico.
Questo, naturalmente, non vuol dire che non possono lavorare a favore di una visione sostanziale e progressista della società: nel New Deal e, in generale, nello Stato sociale, il maggior ruolo accordato agli esperti ha una funzione progressista lì dove all’interno di un mondo governato da principi neoliberali – anche se dovremmo utilizzare una tale categoria in modo più preciso e meno ideologico di come viene generalmente fatto – gli esperti hanno spesso svolto un ruolo esattamente contrario. Infine, la politica tecnocratica che ne deriva – e che si basa su un processo decisionale che coinvolge esecutivi, alta burocrazia ed esperti, marginalizzando le assemblee elettive – tende ad intrattenere un rapporto conflittuale, segnato dalla sostanziale e reciproca incomunicabilità, con l’opinione pubblica; che è invece un altro pilastro fondamentale della democrazia.
E come si è modificato nella società digitale?
Essenzialmente con la digitalizzazione della società e dell’economia si verifica una vera e propria rivoluzione della vita democratica, riassumibile in cinque processi principali:
- la digitalizzazione diventa una delle poste in gioco principali deli gioco politico-economico;
- le dinamiche della comunicazione politica, del rapporto tra leader e cittadini, dell’opinione pubblica, dei conflitti sociali e dei movimenti vengono sussunte nel mondo digitale;
- Le organizzazioni intermedie (come partiti, sindacati, associazioni ecc.) devono ridefinirsi completamente e tendono a de-istituzionalizzarsi;
- i soggetti economici privati che controllano e producono tecnologia digitale come i mondi resi possibili da essi, divengono sempre più forti, contribuendo a cancellare la distinzione tra “pubblico” e “privato” così come la possibilità di controllare e capire effettivamente come funzionano queste tecnologie digitali, come vengono generati e usati i relativi dati e così via;
- Si generano nuove possibilità di governo della società e di gestione delle emergenze: sarebbe mai stata possibile quella particolare politica tecnocratica (come definita sopra) che è stato il lockdown senza la presenza delle tecnologie digitali? Ovviamente no. Insomma, si crea una continua ed affannosa rincorsa tra sviluppo delle tecnologie digitali, categorie scientifiche e sociali per comprenderle, e dinamiche democratiche.
E in questa rincorsa gli ultimi due termini, come già hanno mostrato sociologi come Ogburn, addirittura nel 1922, sono sempre in ritardo! O meglio, questo ritardo, nel caso della società digitale, si determina dal momento in cui la digitalizzazione viene controllata dal grande capitale: all’inizio la Rete, le sue innovazioni e applicazioni, dopo essere state favorite, negli USA, dagli investimenti della difesa (progetto arpanet) furono sviluppate con un segno profondamente libertario e contro-culturale dalla prima generazione dei costruttori della società digitale.
Successivamente questa contro-cultura e il suo orientamento democratico e libertario sono stati completamente sussunti e soppiantati dallo sviluppo delle grandi compagnie private che dominano il mondo digitale che conosciamo oggi. Quindi, anche a questo proposito, non ci troviamo di fronte a qualcosa di inevitabile e deterministico ma a qualcosa che ha avuto una storia e che si è sviluppato all’interno di certi rapporti sociali.
Quale riflessione invece lei propone tra globalizzazione, digitalizzazione e democrazia?
Dobbiamo innanzitutto sgomberare il campo da un equivoco fondamentale: la digitalizzazione così come la tecnocrazia non sono meccanismi o processi che annullano la politica. Se intendiamo la politica come l’ambito nel quale si prendono le decisioni per la collettività, con la possibilità di imporre queste decisioni con la forza, allora è chiaro che la politica ha assunto storicamente tante forme diverse che non hanno nulla a che fare con la democrazia.
E dunque la politica assume e stringe rapporti con gli esperti come con le tecnologie digitali senza esserne cancellata, anzi: non esiste un mondo a-politico né probabilmente esisterà mai, come invece pensavano utopisti e rivoluzionari come, ad esempio, Engels, che si figurava la società comunista come una pura amministrazione di cose e direzione di processi; una cosa puramente tecnica, intendo la tecnica come qualcosa di neutrale politicamente ed estranea ai conflitti sociali.
Ecco allora che la politica tecnocratica o la politica che si appoggia e viene plasmata dalla digitalizzazione è più forte che mai e può anche colpire, con questa nuova forma, sul piano sia della politica interna che estera: le fake news, ad esempio, sono molto spesso il frutto di deliberate campagne politiche volte a prendere
consenso a tutti i costi oppure, sul piano internazionale, colpire e destabilizzare una potenza straniera. È la democrazia formale, per le ragioni che abbiamo già detto, che viene messa in crisi dalla digitalizzazione e dall’ascesa degli esperti, perché queste due cose introducono principi elitari, opacità, controllo così come crescente instabilità all’interno del gioco democratico. Ma questo è solo un lato della medaglia: la digitalizzazione significa anche maggiore possibilità da parte dei soggetti sociali di avere visibilità e di auto-organizzarsi contro un potere. Nella globalizzazione è questa è la principale contraddizione che abbiamo di fronte e dal suo esito dipende il nostro futuro.
Nel suo libro lei parla del concetto di “egemonia” nello sviluppo dei temi del digitale. Può darci maggiori lumi?
Ogni potere politico così come i gruppi economici che gli ruotano intorno hanno due esigenze fondamentali: la prima è quella di legittimare le proprie politiche facendo appello ad una qualche forma “superiore” di razionalità e di evidenza empirica, scientificamente acquisita. Questo perché il potere è ormai de-sacralizzato quasi ovunque (se si eccettua il mondo del fondamentalismo) e perché le ideologie o, in genere, le “grandi narrazioni” sulla storia e la società sono ormai declinate.
Rimane l’autorità della scienza e della conoscenza scientifica e dell’agire tecnico sebbene, nello scenario comunicativo attuale e nella “società globale del rischio”, per utilizzare il modello di Beck, si tratti di un’autorità incerta, comunque contestata, fragile. Ma questa esigenza “propagandistica” non basterebbe, da sola, per parlare di egemonia in senso gramsciano. E siamo così alla seconda esigenza: mediante l’uso dei saperi esperti e degli esperti si cercano di elaborare politiche e visioni di società ad esse connesse che si dimostrino maggiormente in grado di risolvere i problemi più urgenti di quella specifica società. Di essere convincenti perché efficaci: qui l’egemonia è concretamente capacità di “direzione politica”. Ad esempio, tutti oggi inveiscono contro il neoliberalismo ma pochi ricordano che le politiche di de-regolamentazione e di crescente apertura dei mercati interni ed internazionali si imposero perché, negli anni Settanta e Ottanta, si dimostrarono in grado di risolvere meglio delle vecchie ricette keynesiane il problema della stagflazione e della crescita incontrollata del debito pubblico.
Esattamente come, nella fase precedente, le politiche keynesiane e lo Stato sociale teorizzato per la prima volta dal piano Beveridge sono state in grado di risolvere i problemi sollevati dalla crisi del Ventinove e dalla Seconda guerra mondiale.
Questo ci conduce direttamente al cuore del “socialismo scientifico” come metodologia politica, persino indipendentemente dal suo contenuto sostanziale: qualunque visione di società e qualunque insieme di politiche, al livello strategico, diciamo, possono pensare di opporsi con successo ad una certa egemonia e ad un certo blocco sociale che le sostiene non semplicemente invocando ragioni morali o umanitarie; devono convincere i vari gruppi sociali da mobilitare della loro maggiore razionalità, della maggiore capacità di risolvere, praticamente e teoricamente, i problemi più urgenti della società. Finché ciò non accade possiamo indignarci quanto vogliamo, possiamo moltiplicare gli appelli e invocare persino i diritti umani: le cose non cambieranno mai davvero né le riforme avranno mai slancio e respiro.
Continueremo ad essere utopisti ed umanitari in un mondo che richiede, sempre più che i valori alternativi si accompagnino a teorie e politiche efficaci.