di Sara Hejazi 

Dinanzi ai grandi cambiamenti e alle sfide globali sembriamo tutti uguali, noi umani. Chini sui nostri smartphone, alla costante ricerca di una rete a cui agganciarci, attraversiamo deserti e montagne da Sud a Nord del mondo, da Est a Ovest, con corpi, credenze, tradizioni e generi diversi, ma accomunati da un bagaglio culturale ormai divenuto planetario: la mela morsicata della Apple, la M rovesciata del MCDonald’s, la “V” della Nike… Simboli che riusciamo a riconoscere ovunque, che ci si trovi nelle steppe dell’Asia centrale o sul Tropico del Cancro. Accomunati anche da alcune grandi certezze che animano il nostro tempo: tra queste, quella che per ogni cosa -salute, dignità, diritti, felicità- ci voglia il denaro. E che per il denaro bisogna essere disposti ad attraversare, appunto, deserti e montagne.

E poi c’è dell’altro, oggi, che ci accomuna. Siamo tutti inermi di fronte a un virus che può distruggerci senza distinguere il colore della nostra pelle o le nostre abitudini alimentari. Da Nord a Sud, siamo tutti schiacciati dalla pandemia globale. Ma anche prima di questa minaccia avevamo iniziato a somigliarci come mai ci era successo prima d’ora: oltre il 60% di noi si è ormai insediato nelle grandi aree urbane e non ha esperienza diretta dell’agricoltura. Dunque siamo più di 5 miliardi a consumare alimenti prodotti dall’industria alimentare, i cui meccanismi, sono, a dire il vero, un mistero più grande di quello che per gli antichi greci furono i misteri eleusini. E, progressivamente, stiamo diventando simili anche nel nostro modo di riprodurci: non siamo più una specie molto fertile anche se siamo davvero numerosi.

Siamo passati dall’ avere molti figli per sopravvivere, a sperare di sopravvivere perché scegliamo di non fare molti figli. Se fino a 100 anni fa erano mediamente 7 i figli per donna, in 100 anni sono diventati poco più di due. E infine, le lingue che parliamo: anche quelle si assomigliano sempre di più. Ci sono parole come “web”, “messanger”, “WIFI”, che sono usate praticamente in tutte le 7000 lingue del mondo. Sono tante, quindi, “le cose che abbiamo in comune”, come canta Daniele Silvestri.

Eppure, è ancora possibile morire per un credo religioso, per un muro o per un mare che separa due diverse nazioni. Si muore perché non si ha un passaporto, per il colore della propria pelle, per il proprio sesso biologico o per il proprio genere. Le cose che abbiamo in comune non ci rendono dunque uniti, né immuni dalla discriminazione, dai complessi di inferiorità o superiorità culturale, né liberi di viaggiare e di scegliere dove risiedere, né pronti a immaginare progetti davvero globali.

Laddove è arrivata la tecnologia -a braccetto con il mercato- nei quattro angoli più remoti del pianeta, la cultura è invece un po' restia ad entrare. Sembra un po' più timida, forse non vuole ammettere di essere in grado di cambiare tanto in fretta quanto la scienza cambia il nostro modo di vivere. Sembra tergiversare, attaccandosi a qualche certezza del passato, qualche ideologia del secolo scorso, ormai obsoleta. Così, più ci somigliamo, più ci sentiamo frammentati, isolati e profondamente divisi.

Ma la realtà è che siamo sballottati: da una parte ci spinge una enorme forza centripeta, che è quella della globalizzazione. Nessuno può resisterle. Dall’altra, però ci trattiene la forza centrifuga della diversificazione. La nostra identità, che si basa non solo sull’essere individui unici e irripetibili, ma anche parte di un micro gruppo fatto da quel fragile miscuglio di lingua, corpo, credo e passato che chiamiamo “cultura”.

Da una parte, alcune culture spariscono o sono in fase di estinzione. Dall’altra le culture si reinventano,  si mescolano, muoiono per poi rinascere nuove, si fanno chiamare sincretismi dagli studiosi, ma nessuna definizione le può cogliere appieno. Ciò che è certo, però, è che vale anche qui, come nella fisica, la terza legge della dinamica che ci ricorda che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Qui, a ogni ibridazione, (métissage o mescolamento), corrisponde una diversificazione uguale e contraria.

 E allora, sempre più omologati, sempre più frammentati, viviamo in un pianeta che sembra non avere confini, mentre noi continuiamo imperterriti a confinarci in categorie sociali, economiche, etniche, sessuali, religiose e politiche ormai antiche. E’ arrivato il momento di prendere atto che i nostri confini sono la pesante e ingiusta eredità di un passato obsoleto in un mondo completamente nuovo e in precario equilibrio, nel quale tutto ciò che è confine non è solo superato, ma, molto probabilmente, del tutto inutile.

06-12-2020
Autore: Sara Hejazi 
Antropologa e giornalista
Docente presso l'università Al Farabi e il Collegio Arcivescovile di Trento
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