di Maurizio Gentilini
Ventotto anni fa, il 23 maggio 1992, la strage di mafia di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Quell’attentato, insieme a quello che, due mesi dopo, costò la vita all’amico e collega Paolo Borsellino e alla sua scorta, rappresentò il punto più alto della sfida della mafia nei confronti dello Stato.
Venivano così colpiti gli uomini simbolo che, con professionalità e coraggio, avevano inferto durissimi colpi all’organizzazione e alla cultura mafiosa, svelandone l’organizzazione e le attività, i legami con la società e la politica, ma soprattutto la vulnerabilità e la possibilità di combatterla con gli strumenti del diritto e la cultura della legalità.
Su questo ultimo elemento si concentra la riflessione del teologo Massimo Naro e di Nicola Filippone, preside dell’Isitituto Don Bosco Ranchibile di Palermo
Riflettendo sul filo della memoria (e sul pericolo dell’oblio), lo studioso e l’educatore ripercorrono alcune tappe e rievocano alcuni protagonisti della “grande carovana” che in Italia ha camminato controcorrente, resistendo alle mafie; concordano sul principio che la lotta al malaffare non possa ridursi all’opera di repressione, ma debba diventare “un movimento culturale” e un “impegno morale” condiviso il più possibile, che può scaturire solo da un grande sforzo formativo nel segno della legalità rivolto ai giovani; giungono alla conclusione che una vittoria sul fenomeno mafioso sarà possibile perseguendo l’educazione alla bellezza, all’equilibrio e all’armonia sociale.