di Mario Nardicchia
Conflitto inutile, evitabile…
«Chiama e numera. Quelli che gittarono incontro alle trincee fetide e cupe l’inno di giovinezza come fascio di raggi e caddero col canto puro nella gola aperta, sepolti nei tesori della neve, quelli udranno e verranno» (Gabriele d’Annunzio- “Canti della guerra latina -1914/1918” II,20) «Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie» (Giuseppe Ungaretti- “Soldati”, da ‘Allegria di naufragi’-1919).
Giovanni Calò, pugliese di Francavilla Fontana(1882-1970) -pedagogista all’Università di Firenze (1911-1952), deputato al Parlamento dal 1919 al 1924 nella XXV Legislatura del Regno d’Italia (il 30 marzo 1920 presentò la proposta di Legge C.598: «Per la eleggibilità dei maestri a consiglieri comunali»), sottosegretario alle Antichità e Belle Arti nel 1922- nel suo volumetto “Dalla guerra mondiale alla scuola nostra” –Firenze, Bemporad Editore, pubblicato nel 1919 nel quale raccoglie scritti
apparsi sui giornali d’epoca della grande guerra, inizia con questo capitoletto: “La Germania e la guerra nostra”, apparso nel giugno 1915 sulla ‘Tribuna’, rivelando che « il senatore di Albenga Vittorio Rolandi Ricci si meravigliava che la Germania avesse sempre preferito l’Austria all’Italia […] e ch’è stato un segno d’insipienza politica da parte della Germania questo, di non aver voluto vedere che nessun contrasto d’interesse, nessuna ragione storica di conflitto esisteva tra essa e l’Italia e d’aver voluto quindi una nuova guerra evitabile, perché inutile e ingiustificabile dal suo stesso punto di vista».Quindi, il pedagogista aggiunge, di suo: «Ora, io non voglio affatto negare ciò che è ormai di un’evidenza palmare: l’assoluta incapacità politica della Germania, la grossolanità primitiva dei suoi metodi diplomatici, l’ingenuità della sua condotta nei rapporti internazionali[…]; essa è più disposta all’uso della forza che all’uso dei savi accorgimenti». Giovanni Calò mette in chiaro la situazione pre-bellica: «L’Austria ha sempre significato per la Germania il gran ponte lanciato verso il Mediterraneo: attraverso l’Austria essa invadeva la penisola balcanica e stabiliva una continuità colla Turchia: attraverso la Turchia stabiliva una continuità tra sé e l’Asia, ove mirava il suo sogno smisurato d’impero». Il pedagogista pugliese ha una visione condivisa dagli ‘interventisti’ italiani dell’epoca: «Ricordiamolo bene: se la nostra guerra è contro l’Austria per le sacrosante aspirazioni nazionali, essa è contro la Germania per la nostra situazione generale di potenza europea».
Due visioni contrapposte: i Tedeschi aspirano a germanizzare l’Oriente; l’Italia anela ad un posto di rilievo in Europa. E’ interessante, nel volumetto di Giovanni Calò, il primo capitolo della Parte II: “L’Università italiana e la guerra”, apparso su ‘Il Marzocco’ dell’8 novembre 1914: «L’Associazione Nazionale fra i Professori Universitari (‘per bocca del prof. Del Vecchio’)si è presentato al Ministro della Pubblica Istruzione e gli ha esposto il voto che l’Italia apra le porte dei suoi Istituti superiori a quei giovani dei diversi Stati belligeranti d’Europa i quali vogliano, tra il fragore delle armi, proseguire gli studi e serbare accesa nei loro cuori l’innocente fiamma della Scienza, come i Conventi nella più fosca barbarie medievale».
Tale proposta, come è facile intuire, veniva ascritta ai ‘neutralisti’, anche se in sé racchiudeva l’essenza del mecenatismo, della reciprocità e dell’interculturalismo. Il pedagogista pugliese non usa mezzi termini nemmeno in fatto di docenti stranieri, austriaci e tedeschi, che insegnano nelle nostre scuole. In un suo articolo pubblicato ne ‘Il Marzocco’ del 2 gennaio 1916, così conclude: «L’Italia sopra tutto; cioè, sopra tutto, la scuola italiana, e quindi, per cominciare, soltanto professori italiani». Infine, il Calò non risparmia dai suoi acuti strali nemmeno il papa dell’epoca –Benedetto XV(1854-1922)-, notoriamente e per definizione ‘pacifista’, il quale auspicava «una pace giusta, duratura e non profittevole ad una soltanto delle parti belligeranti, in cui siano debitamente vagliate le aspirazioni di ciascuno, eliminando le ingiuste e impossibili e tenendo conto, con equi compensi e accordi –se occorra- delle giuste e possibili» .
Uno scritto del pedagogista apparso su ‘L’Azione’ di Milano il 1 gennaio 1916, così risponde:« Il Pontefice ha parlato ancora una volta, e ancora una volta –sia detto colla grande riverenza dovuta alla maestà dell’Ufficio- ha perduto una buona occasione di tacere». Quindi tira fuori il massacro degli Armeni, reso oggi così attuale da papa Francesco: «Quali son le pretese ingiuste della Quadruplice Intesa? L’eliminazione dell’ignominioso dominio turco dall’Europa o da regioni che sembrerebbero care al cuore dello stesso Pontefice, come la straziata Armenia?». In seguito il Calò se la prende con Mario Missiroli(1886-1974) il quale, nell’opuscolo “Il Papa e la guerra” pubblicato da Zanichelli nel 1916, sosteneva che «la Chiesa non può non essere neutrale, perché essa rappresenta una verità eterna e trascendente».
Gli ribatte che: «Guerre furon pure le Crociate e Cristo fu pure che cacciò i profanatori dal tempio». Ricorda anche che Missiroli, nel precedente volume “La Monarchia socialista” –Laterza, Bari 1913- giudicava con severità il predecessore ottocentesco papa Leone XIII (1810-1903) perché «scarificò gli Irlandesi all’Inghilterra, i Polacchi alla Germania e alla Russia, non ebbe una protesta per gli Armeni massacrati dai Turchi».
Intanto, poiché la Turchia aveva dato segni di debolezza dopo che l’Italia le aveva strappato la Libia nel 1911, gli Stati balcanici –Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria- si uniscono nella cosiddetta ‘Quadruplice Alleanza’. Ma il 28 giugno 1914 un complotto ordito da studenti serbi nazionalisti, colpisce a morte l’Arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie la duchessa Sofia, in visita a Sarajevo. Il 28 luglio l’Austria, che ha dietro la ‘istigatrice’ Germania, dichiara guerra alla Serbia, che ha dietro la Russia, alleata con la Francia. L’Italia è legata a Germania e Austria dalla ‘Triplice Alleanza’, però a carattere ‘difensivo: quindi il 2 agosto proclama la propria ‘neutralità’. Primavera del 1915: primo ministro del Governo italiano è Antonio Salandra, ministro degli esteri Sidney Sonnino, che danno ascolto agli ‘interventisti’ e il 23 maggio 1915 portano l’Italia in guerra, però contro l’Austria che teneva ancora sotto il suo giogo terre nostre. Il giorno seguente è immortalato nella canzone di E.A. Mario del 1918: “La leggenda del Piave”, con il famoso incipit «Il Piave mormorava,/calmo e placido al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio/…», adottata come Inno nazionale l’8 settembre ’43, sino al 12 aprile del ’46, sostituita –sebbene in via provvisoria che dura tutt’oggi- dal risorgimentale “Canto degli Italiani” composto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel 1847.
A mano a mano tutte le altre grandi potenze si sentono di intervenire e succede una carneficina. Dopo quattro anni di sanguinose lotte fratricide, l’11 novembre 1918 la Germania chiede l’armistizio. L’Europa conterà nove milioni di cadaveri, dei quali settecentocinquantamila Italiani.
Uno storico tedesco, Emil Ludwig (pseudonimo di Emil Cohn, 1881-1948, ebreo nato a Breslavia –allora in Germania, oggi in Polonia-), nel suo libro “Luglio ‘14”, tradotto e pubblicato in Italia da A. Mondadori –Milano- nel 1930, così conclude amaramente l’ultimo Capitolo, ‘La valanga’: «Menzogna e leggerezza, passione e paura di trenta diplomatici, principi e generali, avevano trasformato milioni di uomini pacifici in assassini, briganti, incendiari, per la durata di quattro anni, per la Ragion di Stato, per lasciare alla fine l’Europa imbarbarita, appestata, in miseria». Entrambi, sia Calò che Ludwig, furono testimoni non solo dell’immane tragedia della Prima, ma anche dei disastri della Seconda Guerra Mondiale. Forse, se la Germania avesse preferito l’Italia all’Austria, avrebbe ridimensionato l’uso della forza in favore dell’uso di «savi accorgimenti diplomatici». Ma un velo di tristezza, forse di pentimento appare anche nelle parole e negli esili versi, riportati in epigrafe, di Gabriele d’Annunzio e di Giuseppe Ungaretti , convinti interventisti rientrati dalla Francia, ‘vati’ migranti divenuti soldati volontari di trincea, delusi per una guerra inutile, pur se vittoriosa, comunque ‘mutilata’.