di Sergio Bellucci

Spesso in questi anni si è parlato dell’origine del ritardo italiano. Perché la nostra economia non cresce al ritmo degli altri paesi? Perché, pur avendo una saturazione altissima dell’intensità del lavoro umano (con linguaggio antico avremmo detto il livello del suo “sfruttamento”), la nostra produttività non è al passo con quella degli altri paesi europei e mondiali? Dove abbiamo accumulato il nostro grande ritardo? Quali sono stati i deficit accumulati e quando c’è stata la definitiva inversione di tendenza?

Certamente sulla storia del nostro paese hanno pesato e pesano fattori macroeconomici e finanziari, come l’aumento progressivo del debito pubblico degli anni ’80 e il ritardo nel processo di ammodernamento della Pubblica Amministrazione. Due fattori importanti nel differenziarci rispetto ad altri paesi europei. Due fattori che pesano, ancora oggi, come macigni sulla nostra società e che hanno colpe e radici diverse e risiedono in opzioni di politica economica che, se diedero  sostanza al “decennio d’oro” dei governi pentapartito nell’immediato, condannarono il paese al declino successivo.

Il nostro declino collettivo, però, rappresenta una sorta di ossimoro. Questa fase, infatti, poggia su un processo di “arricchimento individuale” imparagonabile a quello degli altri paesi e caratterizzato da due fattori: il primo, frutto dei meccanismi della scelta della logica della rendita (la casa, i bot – ve li ricordate i bot-people? -, ecc..) che spinsero la società a svilupparsi intorno all’idea del self-made-man, costruito, però, sull’esplosione del debito pubblico. Se lo Stato si indebitava, quelle stesse risorse divenivano una “ricchezza privata” che poggiava (e poggia ancora) per una parte consistente proprio sulle stesse persone. Con la differenza che mentre la “ricchezza” - che andava a favorire o la rendita o l’esplosione delle micro-attività imprenditoriali – è fortemente concentrata socialmente, il debito poggia, in maniera privilegiata sul lavoro salariato che paga le tasse alla fonte e, cioè, sulla parte meno protetta della società. Una grande “magia illusionistica” di quel meccanismo di accumulazione che, ancora oggi, ci fa vedere lucciole per lanterne e contribuisce al mantenimento di una “illusione” sistemica che fa credere alle persone di vivere una realtà diversa dalla sua concretezza materiale. E questa gigantesca illusione fu sostenuta attraverso un meccanismo ad esso intrecciato che rappresenta il secondo punto: il sostegno (diretto, indiretto, legale, a-legale, talvolta illegale o fraudolento) ad attività imprenditoriali micro, difficilmente controllabili, con una infinità di trattamenti sociali, fiscali ed economici differenziati che costruirono una economia ad-personam, in cui ogni singolo individuo fu invogliato a percepirsi come un agente economico autonomo il cui limite (da superare in maniera “obbligata”) risiedeva solo nel controllo statuale delle “regole” e del fisco.

L’illusione era, ed è, quella del “farsi da solo”, della micro attività economica che spesso non aveva né la capitalizzazione, né le competenze, né la strategia per farsi vera “impresa”; che viveva, spessissimo, di una singola macro commessa – che lo caratterizzava solo come una esternalità lavorativa di un ciclo produttivo pensato e gestito al di fuori delle proprie possibilità imprenditoriali – che lo caratterizzava più come un fattore di “esternalizzazione” che di “imprenditorialità” nascente; che si basava sulla solleticazione dell’individualismo anarchico tipico della cultura nazionale e sull’autoconvincimento di essersi fatti da se.  

Fu il modello socio-culturale che Berlusconi conosceva benissimo come imprenditore e che incarnò e rilanciò politicamente; condannando il paese al definitivo declino. La metafora della formica e della cicala anticipava ampiamente il nostro destino di cui, ancora oggi, ci facciamo vanto: un grande debito pubblico a favore di un’accumulazione privatistica; la rottura dell’intervento pubblico nella costruzione di politiche industriali capaci di reggere il confronto con i processi di globalizzazione che si facevano sempre più forti, la rincorsa ai processi di liberalizzazione e privatizzazione che, in presenza di uno smantellamento delle partecipazioni statali, dell’indebolimento delle imprese nazionali strategiche e del sostegno al modello socio-economico del “piccolo è bello”. Tutte cose che, in questi anni, hanno impedito di progettare e costruire il nostro futuro.

Furono gli anni, quelli del decennio ’90, in cui le scelte politiche strategiche vennero meno o meglio, quelli in cui la politica scelse di lasciar fare al “mercato”. Furono gli anni in cui la vecchia sinistra scopriva il mercato (e indicava gli orizzonti di privatizzazione e di liberalizzazione come gli obiettivi strategici delle politiche economiche, demonizzando le “politiche industriali”) e le destre (vecchie e nuove) attaccavano le sinistre perché non facevano presto a smantellare le vecchie aziende pubbliche o non lo facevano “fino in fondo”.

La lotta, si può dire, era sulla coerenza al “progetto”, ma il progetto era lo stesso.

E questo è rintracciabile ancora oggi, almeno sulle scelte non di superficie della politica economica.

Pochissimi provarono a tentare di far ragionare il sistema politico delle implicazioni di fondo di tali opzioni. E quei pochi vennero accusati di “ideologismo”, di essere “residui” di un passato che andava cancellato e seppellito: la “mano invisibile del mercato” avrebbe risolto ogni cosa. Molti sono oggi impegnati a sostenere tesi contrarie (sia a destra come a sinistra), ma facendo finta che non ci sia il ricordo delle loro posizioni.

A nulla valse, a quel tempo, far notare come in Francia e in Germania, ad esempio, le scelte dei governi andassero da un’altra parte, che i governi difendevano le loro industrie strategiche, i settori pubblici (forse non arcaici come i nostri, certo, ma non molto differenti in fondo) e quelli ad alta occupazione. Nessuno ricorda, ora, che la Francia, seguendo le scelte di politica economica che la sinistra italiana indicava come strategica per affrontare la crisi, decise la riduzione di orario a parità di salario e fu lasciata sola, proprio dall’Italia, dopo la caduta del primo governo Prodi. Anzi, che ne fu la vera causa. E che il successivo governo socialdemocratico tedesco rinunciò, proprio per quella inaspettata “solitudine”, ad attuare la stessa scelta che pur aveva annunciato durante la campagna elettorale. Forse, se si fosse chiuso l’asse italo-franco-tedesco, foriero di un’innovativa idea di politica industriale in Europa, non ci saremmo trovati con la vittoria dell’impostazione blairiana della terza via, risparmiando alla Gran Bretagna il proseguimento delle politiche thatcheriane sotto il vessillo del partito labourista e la sponda del governo di Londra agli USA per il via libera al disastro, umanitario e politico, della seconda Guerra del Golfo. Sponda di cui lo stesso Blair dovette scusarsi per l’inganno perpetrato al suo popolo e al mondo intero. Forse ci saremmo risparmiati molte cose di questi primi venti anni del secondo millennio…

Erano gli anni delle grandi scelte. Il momento di decidere da quale parte stare. La Storia, infatti, costruisce delle vere e proprie biforcazioni, degli appuntamenti in cui si deve decidere, come nel racconto borgesiano Il Giardino dei sentieri che si biforcano, come schierarsi. Non sempre ciò appare evidente ai più, o si riesce a valutare la complessità del quadro, delle implicazioni delle scelte che si compiono, delle dinamiche a cui ci si oppone o che si rafforzano.

La mia riflessione di oggi parte da una esperienza personale, la mia lotta contro il processo di privatizzazione e liberalizzazione del settore delle TLC. Privatizzazione e liberalizzazione che tutte le forze politiche e gli schieramenti volevano, con differenze che si misuravano su chi potesse ricavarne vantaggi strategici sul piano politico e su quello finanziario. Sul piano industriale neanche si discuteva: si pensava che il “mercato” avrebbe risolto tutto. Tutte le forze politiche erano d’accordo, tranne Rifondazione Comunista in cui il sottoscritto dirigeva il Dipartimento responsabile della comunicazione. Molte erano le obiezioni di merito e di metodo che avanzavamo. L’idea della privatizzazione della quarta azienda di telefonia mondiale, quale era la Telecom Italia all’epoca, una azienda che vantava un MOL (Margine Operativo Lordo) che superava i 19.000 miliardi di lire, e che avrebbe declassato quell’impresa e il paese (cosa ampiamente avvenuta); l’affidamento della rete di TLC a mani private (e oggi sappiamo bene cosa significhi in termini di privacy, di controllo politico-sociale e di concorrenza imprenditoriale) “avrebbe consegnato il sistema nervoso di un paese nelle mani di interessi privatistici”; lasciar sviluppare la rete al mercato avrebbe avuto due gravi conseguenze: ritardare l’innovazione dell’infrastrutture e creare quelli che chiamavo allora i “sud digitali”, le aree a bassa copertura di rete che avrebbero condannato ad un arretramento nel tasso di sviluppo le imprese e il territorio; la modalità di privatizzazione che di fatto regalava l’azienda consentendo di farla pagare ai subentranti attraverso gli utili della stessa azienda (cosa che ne decretò la morte strategica e che era ben chiara fin dall’inizio del processo).

Per anni le autorithy ci hanno dispensato i numeri di quanto avessimo risparmiato con la telefonia privatizzata, che le tariffe erano scese a vantaggio del “cliente”. Oggi vorrei che nel calcolo del costo di quella riduzione delle tariffe ci fosse l’aggiunta di quanto abbiamo pagato in ritardo dal punto di vista dell’aggiornamento industriale, culturale, di quanti punti di PIL è costata questa scelta scellerata, di quanti miliardi di euro stiamo mettendo oggi per fare quello che una azienda pubblica avrebbe “programmato” e sviluppato in sintonia con decisioni strategiche della politica industriale del paese. Vorrei che si evidenziasse quanto ci costerà in termini di interessi sul debito questo passaggio e che qualche “economista” sincero rifacesse i calcoli e ci dicesse quanto ha pagato l’Italia per quella scelta. Che qualcuno che lo sa fare ci dicesse quanto è costato e ci costerà, non solo economicamente, l’arretramento strutturale del paese in termini geopolitici e strategici.

Quando si interviene in ambiti strategici, infatti, i calcoli sono complessi e, spesso, la semplificazione e la mancanza di strategia o una strategia miope, producono guasti nel lungo periodo. Era quello che sostenevo con forza quando c’era il primo governo Prodi, con i governi D’Alema e Amato, con i Governi Berlusconi. Ma c’era come un muro invalicabile e omogeneo nella cultura di fondo: la fede che il mercato avrebbe fatto tutto ciò che era possibile (e giusto).

Mi opposi duramente a tale processo, non solo in virtù dell’idea che solo una collocazione pubblica della infrastruttura di rete di comunicazione potesse corrispondere all’interesse di un governo trasparente e democratico di un paese avanzato, ma che in mancanza di tale scelta il paese sarebbe rimasto bloccato, senza un aggiornamento della sua infrastruttura centrale per la nuova economia che stava per essere investita dalle tecnologie digitali. Guardate come gli USA difendono la loro centralità nel controllo della rete o come la Cina ha costruito su questo la sua strategia globale.

A questo si sommò, potremmo dire ancora una volta, l’interesse privatistico del centro-destra berlusconiano. L’azienda Mediaset, infatti, proprio in quegli anni stava facendo incetta di frequenze radiotelevisive per estendere il proprio dominio nel settore della diffusione radiotelevisiva. Direttamente o indirettamente ampie (e talvolta maggioritarie) fette dello spettro di diffusione passavano sotto il controllo della azienda del cavaliere anche in virtù di regole messe a punto dagli ultimi governi del centro-sinistra, a trazione dell’Udeur cossighiana. La scommessa di Berlusconi fu quella di far emergere una televisione digitale terrestre in ritardo, rispetto agli altri paesi europei, e sotto una situazione di simil-monopolio. Un quadro di investimenti che non poteva consentire l’avvento di una rete di TLC di nuova generazione capace di veicolare il nuovo modello della diffusione dei contenuti audio-video: quello della rete Internet. Una rete veloce, capace di diffondere rapidamente il nuovo modello di intrattenimento che già si affacciava nel mondo, avrebbe cozzato contro gli investimenti (errati e mal consigliati) del gruppo Mediaset (una azienda “analogica” che non ha ancora compreso cosa significhi la rivoluzione digitale).

Da un lato dello schieramento politico c’era un interesse ad un processo di privatizzazione che avrebbe sperimentato il “meglio” dell’imprenditoria italica per consegnare, alla fine, al controllo spagnolo di Telefonica, l’azienda gioiello della telecomunicazione italiana, e alla decisone di Renzi di far fare la rete di telecomunicazioni all’azienda pubblica che fa energia.

Dall’altro lato il ritardo nei processi di realizzazione dell’infrastruttura di rete si sono misurati nel ritardo degli impianti produttivi installati e, quindi, sulla produttività del sistema, scaricata tutta sul lavoro umano, con l’orario sempre crescente e il salario sempre decrescente. Una ricerca della Bocconi del 2013 affermava, infatti, che mentre nei paesi strategici dell’OCSE dal 1995 al 2011 gli apparati produttivi avessero, mediamente, effettuato due salti tecnologici, l’Italia produceva ancora con gli impianti dislocati nelle aziende prima del 1995. Impianti che non conoscevano né il digitale, né la sua connessione alla rete, né tantomeno la potenza che da ciò sarebbe derivata e la “logica” e la “cultura” che avrebbero generato.

Il ritardo italico è ampiamente tutto lì. Da quel ritardo si è generata anche l’incapacità di generare una riforma della Pubblica Amministrazione che oggi, nell’era post-Covid-19 abbiamo davanti in tutta la sua urgenza e drammaticità.

Per interessi miopi o personalistici, spesso ampiamente diffusi e condivisi, ci si è illusi che avremmo potuto “continuare a campare”, che sarebbe stata sufficiente un po’ di ammuina per lasciare tutto com’era e continuare a distribuire un po’ di dividendi pubblici sotto forma di interessi sul debito o di sgravi fiscali e rinviare tutte le decisioni strategiche “al mercato” o allo stellone italico.

In quel lontano fine millennio, in un giorno di confronto con i responsabili degli altri partiti e del governo in carica, lanciai una scommessa: al momento di fare la rete di nuova generazione sarebbe dovuto intervenire, di nuovo, il governo per nazionalizzare la rete e progettare una rete unica nazionale. Fui facile profeta e sapevo che avrei intascato le cene.

Sono passati più di vent’anni ma, come accadde per i tre moschettieri, i romanzi finiscono sempre dove il lettore si aspetta o, forse, teme. La rete deve tornare sotto l’ombrello pubblico per fare il salto che il mercato non poteva realizzare. Hanno pagato questo decine di migliaia di lavoratori fuoriusciti anticipatamente o che hanno visto declassata la loro condizione contrattuale. Il paese è il più arretrato dell’Europa e paga un prezzo salato in termini di declassamento. Inoltre, nessuno spiega le reali motivazioni di far entrare una struttura finanziaria, straniera, all’interno del capitale sociale dell’azienda pubblica che farà la rete. Tutti danno per scontato che così debba essere ma nessuno spiega il perché. E non diteci per il miliardo di euro di versamento nelle sue casse….

Il settore delle TLC è sempre un labirinto e sempre più vicino al labirinto del romanzo dannunziano “Forse che sì forse che no”. I meandri con cui gli scrittori conducono il lettore, però, sono infiniti ma, qui da noi, trovano sempre gli stessi personaggi ad interpretare, gattopardescamente, lo stesso ruolo di strateghi. Ieri erano i paladini della svendita, oggi i paladini dell’intervento pubblico. Sempre ostentando la sicumera di una conoscenza strategica che non hanno.

Ovviamente facendo pagare al paese un conto salatissimo, di cui i più non si domandano o si accorgono.     

02-09-2020
Autore: Sergio Bellucci
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